La nostra recensione di Argylle, il nuovissimo spy action thriller di Matthew Vaughn con Bryce Dallas Howard, Sam Rockwell e Samuel L. Jackson tra gli altri: il regista inglese è capace di dare corpo e una certa poesia all’azione come nessuno, senza disdegnare i plot twist
Diciamoci la verità, la mancanza di uno come Matthew Vaughn nel panorama dei blockbuster si sentiva eccome. Dopo l’esordio con il dittico dei Kickass e il proseguimento di una certa “poetica” che unisce la spy story bondiana con l’ipercinetismo di John Woo dei Kingsman, il regista inglese ci introduce in nuovo universo narrativo: quello di Argylle. È un Vaughn all’estrema potenza, sboccato e scorretto (ma mai troppo cattivo), che ragiona ancora una volta di manipolazione, d’identità e di legami famigliari attraverso una storia piena di deviazioni, di twist narrativi e di maschere che cadono come nella tradizione dei mondi a cui si ispira. E anche se non tutto fila liscissimo, il divertimento non mancherà.
Una scrittrice e il suo gatto
Elly Conway (Bryce Dallas Howard) è l’autrice solitaria di una serie di romanzi di spionaggio molto fortunata. La sua unica felicità è quella di scrivere davanti ad un bel fuoco acceso, con un bicchiere di vino e in braccio il suo inseparabile persiano Alfie. Quando però le trame dei suoi libri, incentrate su un agente segreto di nome Argylle impegnato a smantellare una pericolosa organizzazione terroristica, sembrano rispecchiare le azioni di un’organizzazione reale le cose si mettono male. Toccherà all’agente Aidan (Sam Rockwell) prima salvarla, e poi trascinarla in un’avventura in giro per il mondo cercando di stare un passo avanti ai cattivi, mentre realtà e immaginazione si confondono sempre più.
L’azione come poesia
C’è un po’ di All’inseguimento della pietra verde nell’assunto di partenza di questo Argylle. La differenza però non sta tanto nella diversa arena temporale e/o spaziale (lì la New York e la Colombia degli anni ’80, qui il midwest americano, Londra e la Grecia del 2023) o nel diverso modo in cui i due concept simili si sviluppano in seguito, bensì è una differenza di tono e d’intenzione importante. Perché a Matthew Vaughn del romanticismo e dell’amore non è che gliene freghi poi granché, anzi. Il che non vuol dire che il suo cinema rinunci a qualsivoglia tipo di anima o sentimento, perché la poesia e l’anima stessa del suo mondo fanno parte del modo con cui concepisce e mette in scena l’azione.
Ci sono per questo almeno due o tre sequenze destinate ad essere ricordate in Argylle, veri e propri esempi di come, se si hanno intelligenza e capacità, anche l’ipercinetismo e la spacconaggine un po’ fracassona possano e debbano essere considerate delle forme espressive e artistiche di pari dignità a quelle introspettive e di sottrazione di un Kaurismäki o di un Wenders, per intenderci. E Vaughn quest’espressività riesce a farla scaturire con grande potenza immaginifica, utilizzando spazi e oggetti comuni in maniere inaspettate come ad esempio un pavimento pieno di petrolio e dei coltelli; chiunque avrebbe azzardato un combattimento corpo a corpo, lui è andato oltre.
Identità e volti
È uno degli aspetti chiave di un film in cui la necessaria sospensione dell’incredulità si accompagna per forza di cose ad un altrettanto necessario continuo ribaltamento di prospettive e punti di vista, schieramenti, informazioni e ruoli. Perché in Argylle niente è come appare e perciò tutto è esattamente come potrebbe apparire, immaginazione e realtà si sovrappongono in un gioco di specchi privo di una geografia facilmente leggibile ma al contempo non così complessa una volta afferrato il meccanismo. D’altronde Vaughn non è certamente Le Carrè (che pure viene citato nel corso della pellicola), qui non siamo e non vogliamo essere dalle parti di un Tinker, Taylor, Soldier, Spy.
Argylle è invece un divertissement che rinuncia alla complessità tematica e all’intricazione diegetica per abbracciare un cinema spigoloso il giusto e di grande eleganza formale, raccogliendo in sé l’eredità bondiana pre-Craig senza però seguirne fedelmente tutti gli step; non ci sono bellocce da salvare (l’apparizione iniziale di Dua Lipa è all’insegna del girl power più assoluto, inclusa la sua fine) né gadget stravaganti, ma c’è il più classico dei giri del mondo (Grecia, Londra, deserto arabico) e ovviamente c’è un’organizzazione criminale di terroristi e fedifraghi da sgominare e distruggere in fretta.
L’aspetto più intrigante di un’opera come Argylle sta quindi nella forma più che nel contenuto, sebbene non manchi il tema dell’identità reale di cui riappropriarsi dopo aver abbandonato quella fittizia. In questo senso c’è anche un lieve, ma non così banale, ragionamento sul valore dei nostri legami di sangue e familiari e su come la famiglia non sia sempre il posto migliore al mondo in cui rifugiarsi. E poi c’è un persiano tenerissimo di nome Alfie, che nella realtà appartiene alla moglie di Vaughn (una certa Claudia Schiffer) e che “recita” mica male, forse anche meglio di un imbolsito Henry Cavill. Insomma Vaughn l’ha rifatto ancora, e noi sentitamente ringraziamo.
TITOLO | Argylle |
REGIA | Matthew Vaughn |
ATTORI | Henry Cavill, Bryce Dallas Howard, Sam Rockwell, Bryan Cranston, Catherine O’Hara, Dua Lipa, Ariana DeBose, John Cena, Samuel L. Jackson |
USCITA | 1 febbraio 2024 |
DISTRIBUZIONE | Universal Pictures Italia |
Tre stelle