La recensione di Autumn Beat, il debutto alla regia dello scrittore Premio Fiesole 2018 Antonio Dikele Distefano, con un cast quasi esclusivamente composto da attori italiani di seconda generazione e che vanta i cameo di Gué Pequeno e Sfera Ebbasta nel ruolo di loro stessi
Dopo le parentesi seriali di Zero (scritto e ideato dallo stesso Distefano) e Blocco 181, anche il cinema racconta la periferia milanese e la lotta per emergere nel mondo della musica trap di due fratelli. Autumn Beat, scritto da Antonio Dikele Distefano in collaborazione con Massimo Vavassori e che vede lo stesso Distefano al suo debutto dietro la macchina da presa, è un racconto a metà tra biopic e film di finzione sulla scia di modelli come 8 Mile, Get Rich or Die Trying e Moonlight che però non riesce mai a trovare una propria identità.
Storia di due fratelli
Paco (Abby 6ix) e Tito (Hamed Seydou) sono due fratelli italiani di seconda generazione che vivono alla periferia di Milano e che condividono lo stesso sogno: sfondare nel mondo della musica. Paco è il miglior performer, quello più carismatico dei due e che sa tenere meglio il palco mentre Tito è abile nello scrivere e nel comporre i pezzi. Quando entrambi si innamorano della stessa ragazza, Ife (Geneme), e soprattutto quando Paco riesce ad ottenere un importante contratto discografico all’insaputa del fratello, la rottura tra i due sarà inevitabile. Tra gelosie reciproche e crisi personali i due fratelli dovranno trovare un modo per riavvicinarsi, cercando di proteggere se stessi e la loro famiglia da un mondo tanto luccicante quanto spietato.
Da Detroit alla Barona
Nonostante il regista e sceneggiatore Antonio Dikele Distefano abbia dichiarato di aver avuto come modello di ispirazione principalmente il Moonlight di Barry Jenkins, vincitore dell’Oscar come miglior film nel 2017, si percepisce invece come il ritmo narrativo, l’utilizzo dell’arena (che qui si sposta dal Michigan alla Lombardia) e alcune soluzioni di trama siano sin troppo debitrici di film come 8mile o Get Rich or Die Tryin’. Non ci sarebbe nulla di sbagliato nell’appoggiarsi a biopic che hanno fatto della sporcizia formale e della pretesa di realismo il loro punto forte, ma il problema è che purtroppo Autumn Beat non riesce mai ad eguagliare la forza e la sincerità del racconto del film di Curtis Hanson, né tantomeno a raccontare una storia che non sappia di già visto. A questo Autumn Beat non manca una vera e propria anima, quanto la capacità di rendere autentico il punto di vista e lo sguardo su un certo mondo narrativo e su una serie di dinamiche che lo costituiscono. Manca l’abilità di saper guardare con i propri occhi e non con la lente filtrata dall’immaginario che predecessori più o meno illustri ci hanno lasciato.
Un film unico nel panorama italiano che però non decolla
Quella di Autumn Beat è la storia di ragazzi italiani neri di seconda generazione che devono sopravvivere in un contesto sociale in cui le opportunità di crescita e di valore personali sono limitatissime. È una sorta di racconto di sopravvivenza, reso però ancora più peculiare non solo dall’etnia del cast ma anche dalla collocazione geografica di riferimento. Non siamo più nel meridione o nelle periferie romane tanto care al nostro cinema, ma in quella di Milano. Una città ricca, europea, in cui le opportunità non mancano e che quindi viene vista come un punto di riferimento imprescindibile; una città così vicina e al tempo stesso così lontana dalla realtà che ci viene presentata, e che avrebbe potuto costituire un ottimo contrasto drammaturgico il quale però non viene adeguatamente sfruttato. Nonostante quindi la particolarità dell’arena, del cast e del racconto a metà tra biopic e racconto di formazione il film non decolla mai, resta ancorato ad un voiceover opprimente e continuo che smorza l’inquadratura invece di accompagnarla. E se la regola aurea della narrazione recita il cosiddetto “Show, don’t tell”, qui c’è troppo “tell” e molto poco “show”.
Un racconto di famiglia
QUello di Autumn Beat non è però soltanto il racconto di due fratelli che cercano, odissecamente, di arrivare ad essere qualcosa in più di un puntino nella mappa del mondo. È anche il racconto di una famiglia che lotta per restare unita. Ed è proprio tra le pieghe di quel racconto che si manifesta il film che Autumn Beat avrebbe potuto essere: una narrazione non necessariamente intimista e sospesa, ma del tutto genuina e autentica senza frasone ad effetto pronte per essere ripostate su Instagram appena terminato il film. Distefano avrebbe potuto raccontarci, o meglio ancora mostrarci, anche il grido di una generazione che lotta per affermarsi attraverso la potenza delle immagini e dei dialoghi, la sensazione di impotenza e sconforto davanti ai fallimenti che la vita può presentarci, il fuoco che anima la volontà di non arrendersi e di continuare comunque a combattere il pregiudizio, l’isolamento, la paura del futuro. Perché se è vero che il tema del film è quanto di più universale ci sia, non lo sono le esperienze umane che raccontiamo attraverso quel tema. Detroit dalla Barona è molto lontana, e con la Barona forse non c’entra poi così tanto.
Autumn Beat. Regia di Antonio Dikele Distefano con Abby 6ix, Hamed Seydou, Geneme, Dylan Magon, Ernia e con la partecipazione di Gué Pequeno e Sfera Ebbasta, in uscita in esclusiva su Prime Video il 10 novembre.
Una stella e mezza