La nostra recensione di Back to Black, biopic musicale dedicato alla straordinaria Amy Winehouse, qui con il volto e le movenze di Marisa Abela, diretto da Sam Taylor-Johnson: un racconto ripulito e quasi privo di asperità che dell’oscurità del titolo conserva poco o nulla
È la volta di Amy Winehouse. Back to Black prosegue l’onda dei biopic sulle grandi stelle della musica, stelle spesso maledette o con vite particolarmente turbolente. Dopo Freddie Mercury, Elton John, Whitney Houston e Bob Marley (per citare solo quelli più recenti) è arrivato il turno dell’indimenticata Amy Winehouse, la voce jazz di una generazione morta tragicamente a neanche 28 anni. Ad interpretarla, diretta dalla Sam Taylor-Johnson di Nowhere Boy, è la giovane Marisa Abela che è forse l’unica cosa davvero degna di nota di questo biopic fiacco e patinato, ripulito da tutta l’oscurità del titolo e inutilmente santificatorio nei confronti di una vita e di un talento segnati dal dolore.
Amy, che voleva solo cantare ed essere amata
Amy Winehouse (Marisa Abela) ha una voce pazzesca, ma superata la soglia dei vent’anni non è ancora riuscita a sfondare nonostante il sostegno amoroso del padre Mitch (Eddie Marsan) e dell’adorata nonna Cynthia (Lesley Manville). La sua vita cambia quando viene notata durante un concerto in un pub e scritturata per la Island Records, dove incontra il produttore Mark Ronson (Jeff Tunke) grazie al quale pubblicherà Frank, il primo disco. Ma sarà solo con Back to Black, album che ha venduto oltre 20 milioni di copie nel mondo aggiudicandosi 5 Grammy, che Amy conoscerà il successo e la gloria, ma anche il dolore per l’amore tossico con Blake Fielder-Civil (Jack O’Connell) che la porterà all’abuso di alcool e droghe.
Dov’è l’oscurità?
Se non fosse che richiama alla mente l’album meraviglioso che gli dà il titolo, Back to Black avrebbe dovuto chiamarsi Back to White. Perché, in questo biopic su una delle figure più fragili, contraddittorie e controverse della musica degli ultimi vent’anni almeno, di oscurità non ve n’è traccia. E non si parla dell’abuso di alcool, delle droghe, del rapporto a dir poco turbolento coi paparazzi o delle crisi nervose, quegli elementi ci sono (anche se manca la bulimia); qui si parla del modo in cui Amy Winehouse è stata tratteggiata, quasi santificata, trattata alla stregua di una ragazza bisognosa di attenzioni e incapace di dominarsi, di controllarsi, persino di arrivare puntuale alle riunioni.
Si parla di un atteggiamento di scrittura che non va oltre la patina superficiale di un rotocalco, che evita accuratamente tutte le insidie diegetiche del rapporto conflittuale tra Amy e la propria famiglia, di quello sconnesso con i propri fan, delle labirintiche, infernali e per questo spaventose tentazioni dello showbiz qui accuratamente messe da parte. Non c’è nulla in questo Back to Black che giustifichi le quasi due ore di durata, perché al di là di una buona prova di Marisa Abela (da tenere d’occhio per il futuro) che riesce ad evitare l’effetto caricatura e dare un po’ di profondità e tridimensionalità in più alla sua Amy, il resto dello sforzo registico e attoriale affoga nella sua melensaggine.
Resta anche da chiedersi cosa avremmo potuto conoscere di più dei fantasmi e dei demoni di quest’artista tanto straordinaria quanto maledetta, anche perché sono ormai passati 9 anni da quel meraviglioso documentario che era Amy di Asif Kapadia, un’opera – quella sì – disposta ad entrare nell’inferno personale della donna e della star, restituendocela con tutta la propria onestà, la bellezza e l’orrore. Invece Back to Black si affida all’agiografia di tutto punto, forse perché Amy ai parenti di Winehouse non era piaciuto affatto, ma incappa nell’esagerazione, nella glorificazione, nel manicheismo prêt à porter.
Un film stanco, oltre che piatto
Ne consegue quindi che tutti i comparti si facciano piatti, stanchi, didascalici. Dalla regia affatto ispirata di Sam Taylor-Johnson (che pure in carriera aveva raccontato l’adolescenza di John Lennon in Nowhere Boy, con altri risultati) alla fotografia e al montaggio fin troppo scolastici, fino alle prove affatto convincenti del resto del cast (neanche due attori di statura come Lesley Manville ed Eddie Marsan possono fare granché). Un’opera che sembra fatta su misura, priva della minima intensità drammaturgica, persino banalizzata dall’utilizzo di gran parte del limitato catalogo della Winehouse perché ogni pezzo viene inserito nella scena più lapalissiana possibile in accordanza con il testo.
Forse un’operazione come quella di Back to Black avrebbe acquisito senso solo e soltanto abbandonando la forma del biopic, provando invece a modellare forme e registri diversi di racconto (il musical, il thriller, persino l’horror) per addentrarsi davvero tra i mostri che hanno segnato la fine di Amy Winehouse. Di certo Amy avrebbe meritato ben altro e chi scrive è convinto che un’opera patinata, melliflua e anche un po’ paracula come questa non le sarebbe piaciuta affatto; non solo non le rende giustizia ma la trasforma in ciò che probabilmente non era, regalandole una luce salvifica che non le è mai appartenuta. Back to White, per l’appunto.
TITOLO | Back to Black |
REGIA | Sam Taylor-Johnson |
ATTORI | Marisa Abela, Eddie Marsan, Lesley Manville, Jack O’Connell, Juliet Cowan, Jeff Tunke, Ansu Kabia, Harley Bird |
USCITA | 18 aprile 2024 |
DISTRIBUZIONE | Universal Pictures Italia |
Due stelle