La nostra recensione di Everything Everywhere All at once di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, con Michelle Yeoh, Jonathan Ke Quan, Jamie Lee Curtis e Stephanie Hsu: un film anarchico e folle in nome del potere della gentilezza
Il duo di registi, conosciuto anche come The Daniels sotto la produzione dei fratelli Russo, si butta a capofitto nel concetto di multiverso con Everything Everywhere All at once per tirare fuori un film molto diverso dai canoni Marvel (per fortuna), che parla di rimpianti, di famiglia e di come sia possibile governare il caos con la forza dell’amore.
Una piccola attività di quartiere
All’inizio di Everything Everywhere All at once Evelyn Wang (Michelle Yeoh) e suo marito Waymond (Jonathan Ke Quan) sono due immigrati cinesi che gestiscono una piccola lavanderia a gettoni alla periferia di un’imprecisata città statunitense. I due hanno una figlia di nome Joy (Stephanie Hsu) che è fidanzata con Becky (Tallie Medel), la quale però non è molto ben vista da Evelyn per via di una serie di pregiudizi di natura culturale. L’attività di famiglia sta andando a rotoli, i due hanno una montagna di debiti, Waymond vorrebbe chiederle il divorzio e, come se non bastasse, devono anche badare all’anziano padre di Evelyn da poco arrivato dalla Cina (interpretato dal leggendario James Hong). Un giorno si recano all’ufficio del fisco per provare almeno ad ottenere una dilazione dei pagamenti, ma mentre sono a colloquio con l’arcigna ispettrice Deirdre (Jamie Lee Curtis) Evelyn riceve la visita del Wayman proveniente da un altro universo, quello Alpha, che l’avverte che la sua realtà e tutte le altre sono in pericolo. Jobu Tapaki, una terribile creatura agente del Caos, ha infatti intenzione di distruggere tutte le realtà esistenti e con esse tutte le forme viventi e non che le abitano, per poi ricostruire un universo governato dalla totale anarchia e dall’assenza di amore. Inizia così un’avventura folle, fatta di salti continui tra una dimensione e l’altra e tra un’esistenza e l’altra, per fermare Tapaki e i suoi sgherri prima che sia troppo tardi.
Tanti universi, un solo possibile destino (?)
Quando si pensa al concetto di Multiverso, ormai, si viene automaticamente indirizzati ad un certo modo di intendere il cinema e in particolare i cinefumetti. Se però il pensiero industriale alla base di questo ragionamento appartiene ad un colosso ben preciso, è pur vero che è ancora possibile immaginare uno o più universi narrativi la cui funzione non sia solo quello di portare avanti un franchise, ma di utilizzarli per dar vita ad una storia più quadrata e più profonda oltre che più coerente con sé stessa. Nonostante infatti i passaggi repentini tra un universo e l’altro possano inizialmente confondere, soprattutto in apertura del secondo atto, non risultano mai gratuiti o priva di logica perché parte di un disegno narrativo e tematico ben preciso e lucidissimo. Everywhere ( che è anche il titolo del secondo atto) vuol dire dappertutto, ma vuol dire anche in tutti i mondi possibili perché ogni cosa accade sempre e comunque da qualche parte di un qualche universo, ma mai nel modo in cui ce lo aspetteremmo. E in ogni universo si compiono scelte e quelle scelte ci portano a vivere pezzi di una vita che non possiamo tentare di immaginare, perché le variabili sarebbero troppe e ognuna di esse porterebbe soltanto ulteriore dolore e troppi rimpianti. Tante possibili sliding door compongono una vita e quante volte ci siamo posti la domanda “cosa sarebbe successo se…” immaginando di poterle dare, finalmente, una risposta?
Omnia vincit amor, o quasi
Quella di Everything Everywhere All at once è però essenzialmente una storia d’amore o di tanti amori, al plurale. L’amore di una madre verso la propria figlia in primis, un amore però seppellito dall’impossibilità di comunicare con lei, di comprenderne la natura, le scelte di vita o più semplicemente le emozioni. Una madre incapace di utilizzare il pronome femminile she/her per riferirsi alla fidanzata della figlia, con la scusa che in lingua mandarino questa differenziazione tra i generi non esiste. Un amore tra una donna e suo marito, ormai minacciato da un incombente divorzio che però nessuno dei due vorrebbe davvero, ma che sembra inevitabile almeno all’inizio. Perché Waymond ed Evelyn mischiano il mandarino e il cantonese con l’inglese in continuazione, ma non si parlano mai davvero. Strepitano, si azzuffano, si aggrappano con le unghie e con i denti a quel sogno americano per tentare di non farlo morire perché è costato loro troppo, e perché forse è l’ultima cosa che gli rimane. La loro vita è letteralmente affondata nel Caos, un declino inarrestabile che non permette di poter immaginare un qualsivoglia futuro, figurarsi intravederlo. E infine, ma non meno importante, c’è l’amore di una donna verso sé stessa e verso le sue scelte. Evelyn ha seguito l’uomo che amava in un’avventura misteriosa ed eccitante dall’altra parte del mondo, contro la volontà dei genitori e contro i suoi stessi sogni. Lo ha fatto per amore, certo, ma a che prezzo? Quello di rivedersi un giorno di quasi quarant’anni dopo vivere una vita che a lei è toccata solo di sfuggita, essere una grande star del cinema, una maestra di kung-fu, una donna di successo amata e venerata da tutti. E di scoprire che, sì, in fondo al suo cuore un po’ di rimpianto è rimasto dopotutto, nonostante tutto. Nonostante l’amore.
La gentilezza come deterrente al Caos
Se l’amore è la forza che muove tutte le cose e che permette di riavvicinarci gli uni gli altri al di là di ogni possibile universo che abitiamo, è la gentilezza ad essere l’unica arma possibile per sconfiggere il Caos. Ed è proprio nell’assunto che siano bontà e gentilezza a salvarci il tema di Everything Everywhere All at once. Gentilezza non solo intesa come educazione di facciata o carineria, ma anche e soprattutto come legame empatico che si crea tra due o più persone. Quella di Jobu Tapaki, che non a caso ha le fattezze proprio della figlia Joy, è una maschera che vede nei mondi soltanto dolore, incomprensione e distacco emotivo ma che non possiede gli strumenti per comprendere il valore dell’essere aperti, del donarsi agli altri, della solidarietà tra gli uomini. Ma c’è di più. Anche nell’universo più improbabile, quello abitato da sassi apparentemente senza vita, è possibile trovare e valorizzare questa connessione, questa necessità di condividere le emozioni con gli altri; ed è fondamentale farlo, per non lasciare che tutti i Jobu Tapaki di questo mondo e di tutti gli altri vincano. D’altronde, come scriveva il poeta Henry James, ci sono solo tre regole che importano in questa vita: essere gentili, essere gentili, essere gentili.
Un film solo all’apparenza folle e squilibrato
I The Daniels si rifanno esplicitamente all’immaginario e alla visione di registi contemporanei come Wong Kar-Wai o le sorelle Wachowski, ma con molta più ironia e follia creativa. D’altronde è un film in cui visitiamo universi abitati da persone con le dita a forma di hotdog, o assistiamo a lotte all’ultimo sangue con degli enormi dildo usati come portali interdimensionali, quindi non c’è limite o quasi al numero di balzi sulla poltrona per lo stupore o lo sconcerto nel trovarsi di fronte ad inquadrature e idee di messa in scena completamente sciroccate. Everything Everywhere All at once è un film che spinge tantissimo sul pedale dell’eccesso, senza preoccuparsi di risultare ridicolo o ridondante e riuscendo quasi sempre ad evitare di essere sia l’uno che l’altro, ma mantenendo sempre una lucidità e una capacità di gestire registri diversissimi con un controllo magistrale. Si salta (e mai verbo fu più appropriato di questo) continuamente dalla commedia al dramma familiare, dal wuxia alla fantascienza fino a toccare quasi l’horror. Coerentissimo con sé stesso e con le sue regole diegetiche ed extra-diegetiche, Everything Everywhere All at once viaggia spedito lungo tutti i suoi 140 minuti di durata, impreziosito da un cast in stato di grazia. Sono tutti perfettamente in parte, ma un plauso speciale va a Michelle Yeoh per il coraggio nel far suo un personaggio di tale complessità e varietà di toni e a Jonathan Ke Quan, indimenticabile Short Round ne Il tempio maledetto e Data ne I goonies, tornato al cinema dopo più di vent’anni grazie alla lungimiranza del produttore e regista Daniel Kwan per regalarci un Waymond dalle mille sfumature.
In principio è la famiglia
Tutto cambia per non cambiare mai? O è il cambiamento a definirci, a renderci più forti e più maturi, a farci crescere e a farci allontanare, a permetterci di tornare finalmente a casa? Joy, Evelyn, Waymond, Deidre e tutti i personaggi di Everything Everywhere All at once questo cambiamento lo temono, lo bramano, lo aspettano e infine lo subiscono. Le cose accadono per una ragione, si evolvono, si distruggono e nel farlo ci permettono di distruggerci o di sopravvivere ad esse. Siamo esseri umani piccolissimi, piccoli ingranaggi in una macchina enorme che ci è impossibile definire o comprendere nello stato in cui versiamo ora. E forse in questo il cinema è l’unica arte capace di distillare questa complessità per renderla più fruibile, meno imponente ai nostri occhi. Può farlo attraverso un montaggio ad esempio, qui ad opera di Paul Rogers, caotico e insieme lineare come la vita, o attraverso una colonna sonora che adopera suggestioni di onde radio, di sinfonie operistiche, di suoni orientali o robotici provenienti da un futuro incerto. Ed è fenomenale come il film riesca sempre a trovare un suo equilibrio e una sua dimensione, pur cercando di rappresentare il Caos e pur spaziando tra piani così diversi. Come ci riesce? Ricordandoci che tutto (Everything) parte, sempre e comunque, da coloro che più amiamo e che ogni cosa è destinata a tornare a casa. Che siano due sassi in mezzo al deserto, due giovani amanti su un taxi diretti verso una nuova vita, una madre e una figlia nel parcheggio di un supermercato di notte o un treno che parte senza di noi. Per ogni cosa c’è una ragione, basta solo trovarla senza arrendersi mai.
Everything Everywhere All at once. Regia di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, con Michelle Yeoh, Jonathan Ke Quan, Jamie Lee Curtis e Stephanie Hsu, in uscita nelle sale oggi 6 Ottobre distribuito da I Wonder Pictures.
Quattro stelle e mezza