Da Venezia la nostra recensione di Finalmente l’alba, il nuovo film di Saverio Costanzo con un cast che vanta nomi quali Lily James, Willem Dafoe e il Joe Keery di Stranger Things: inizio promettente, ma poi il film si sfalda sotto il peso del suo simbolismo
A nove anni da quel Hungry Hearts con cui aveva praticamente lanciato Adam Driver torna a Venezia Saverio Costanzo con Finalmente l’alba, film dal budget importante (si parla di oltre 25 milioni di euro) e dal cast altrettanto importante con nomi come Lily James, Willem Dafoe e Joe Keery per raccontare il lato oscuro dell’Italia del secondo dopoguerra sullo sfondo dell’omicidio tutt’ora irrisolto di Wilma Montesi. Le ambizioni ci sono e il film sembra riuscire a farsene carico, finché non si arriva al momento in cui silmbolismo sfrenato fagocita tutto.
Una notte indimenticabile
Roma, 1953. Mimosa (Rebecca Antonaci) accompagna la sorella ad un provino per fare da comparsa in un kolossal americano che si sta girando in quel di Cinecittà, ma per una serie di incredibili circostanze cattura l’attenzione di Josephine Esperanto (Lily James), diva americana e protagonista del film. Comincerà così una notte indimenticabile tra feste in villa sul litorale romano e incontri inaspettati, tra i quali quello con la superstar Sean Lockwood (Joe Keery) e con la stella Alida Valli (Alba Rohrwacher). Per fortuna Mimosa potrà contare sulla protezione di Rufo Priori (Willem Dafoe), amico e autista di Josephine, ma è un mondo pieno di leoni quello che l’attende.
La fotografia di un’epoca
Parte piuttosto bene Finalmente l’alba. L’immersione a 360 gradi nei mores dell’Italia post-bellica ha quasi il sapore di un film neorealista, e non solo perché affonda le radici nella parlata volgare ma anche perché fotografa l’ambizione di un intero periodo, la voglia di scrollarsi di dosso gli orrori della guerra per ricominciare a pensare ad un futuro. Non a caso la scena d’apertura è proprio ambientata durante il conflitto mondiale, per poi abbandonare il bianco e nero per rituffarci nel colore del presente, nella vita.
E poi perché Mimosa è una protagonista credibile, avvolta nella propria timidezza e innocenza ma con un velo di spregiudicatezza tale da farle accettare quell’invito lì, da farla addentrare in un paese delle meraviglie che di meraviglioso ha ben poco.Ed è proprio in questa prima parte, diciamo fino alla seconda metà del secondo atto, che Costanzo trova la giusta chiave di rappresentazione per filmare la sfrenata ambizione di un’epoca, tra attrici serpenti e produttori squali, ma anche per squarciare il velo di Maya di un mondo che il marcio lo nasconde dietro l’ostentanzione di una ricchezza insperata.
Poi arriva il simbolismo
Quand’è che allora Finalmente l’alba comincia a mostrare le prime crepe? Quando decide di passare dalla volontà di realismo al simbolismo insistito e didascalico (la leonessa in gabbia che guarda con occhi imploranti Mimosa, la sequenza finale a Trinità dei Monti), depotenziando così la messa in scena perché sposta tutto l’impianto tematico e diegetico su un piano onirico/metaforico, e quindi non più raggiungibile o leggibile come prima. Non che ci sia nulla di sbagliato intrinsecamente in questo, ma se si decide di mischiare così tanto i due piani bisognerebbe farlo con maggiore grazia, o comunque levità di sguardo.
Invece Costanzo si lascia prendere la mano senza peraltro trovare un gancio davvero convincente alla vicenda dell’omicidio Montesi, che aleggia sull’arena narrativa come uno spettro ma che come tale resta. Non basta neanche quella sequenza nel prefinale sulla spiaggia, a suo modo tenerissima ed evocativa, in quanto appare pretestuosa ad una chiave metaforica che accomuni Wilma a Mimosa, la quale sopravvive alla notte e al suo romanzo di formazione senza però averci fatto davvero palpitare il cuore.
Arriva il giorno
In questo viaggio anche piuttosto lungo (forse troppo) Costanzo si concede anche uno sguardo sullo stato del cinema, quello del passato ma anche quello attuale, ragionando sul meccanismo che traduce le ossessioni e le paure in immagini, trasfigurandole attraverso la lente della macchina da presa. In Finalmente l’alba il discorso non diventa mai politico e il commento non ha mai i tratti di una critica sociale, piuttosto si utilizza il contesto storico e l’omicidio irrisolto della Montesi per denunciare una tragica condizione esistenziale, che da Mimosa attraversa tutte le donne (e gli uomini).
Insomma, il cineasta romano ci prova a fare una summa di due epoche (perché di rimando c’è anche la nostra), ma avrebbe dovuto affidarsi più all’occhio del primo atto e mezzo, piuttosto che farsi trasportare dall’ansia della metafora prêt à porter di grana grossa, tra l’altro trasposta in una computer grafica indegna di un film di questa portata produttiva. Forse avrebbe dovuto tornare alla semplicità e alla potenza del finale di quell’Hungry Hearts che, nove anni fa, gli portò ben altra gloria.
Finalmente l’alba. Regia di Saviero Costanzo con Lily James, Willem Dafoe, Joe Keery, Rebecca Antonaci e Alba Rohrwacher, in uscita al cinema il 14 dicembre distribuito da 01 Distribution.
Due stelle e mezzo