La nostra recensione de L’accusa, intricato dramma procedurale su un caso di stupro, diretto da Yvan Attal, con Mathieu Kassovitz e Charlotte Gainsbourg, che tenta di restare neutrale ma inciampa nella sua rigidità
Trattare un tema bruciante e spinoso come lo stupro in un prodotto audiovisivo e riuscire a spogliarsi della becera retorica, proponendo un analisi puntale di un evento tanto traumatico è decisamente complesso. E, allo steso tempo, quanto mai necessario. L’accusa, film diretto da Yvan Attal tenta di raccontare (senza mai mostrare) un caso di stupro con la massima lucidità e razionalità, ma inciampa nella sua stessa esasperata rigidità. La pellicola, tratta dal romanzo Le cose umane di Karine Tuil e presentato fuori concorso alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia, infatti, pur nell’ambizione di sondare una fantomatica zona grigia senza prendere posizione, si autoimpone uno schematismo che ne limita al massimo la pregnanza.
Lui, lei, il processo
Alexandre (Ben Attal) è un brillante, sfacciato e impetuoso studente parigino che studia a Stanford, figlio di una famosa saggista e di un celebre presentatore da poco separatisi. Ad una cena con la madre ed il suo nuovo compagno, il ragazzo conosce Mila (Suzanne Jouannet), figlia di quest’ultimo e timida liceale. I due decidono di recarsi insieme ad una festa dove tra alcool, droghe e una infelice scommessa ai danni della ragazza, si consuma uno stupro. Mila accusa Alexandre di averla violentata ed inizia così un processo che trasformerà le vite di entrambi e dei loro cari.
Una problematica zona grigia
“Lui”, “lei” e “il processo” sono i tre capitoli che compongono L’accusa, un film che tenta di osservare lo stupro da più prospettive possibili. Mila è una vittima o si sta vendicando di un’umiliazione subita da Alexandre? Quest’ultimo è un mostro o era davvero convinto che la ragazza fosse consenziente? Pareri, deposizioni, perizie psichiatriche, analisi scientifiche, strumentalizzazioni, polemiche social si rincorrono affannosamente rendendo impossibile raggiungere una verità. E se non esiste una verità non può esistere giustizia: è questo che il film sembra comunicare. Uno stallo concettuale che depotenzia la carica indagatoria di una pellicola dall’impianto procedurale. Nella volontà di non prendere le parti di nessuno, il film finisce per impelagarsi, disorientare e crollare su se stesso. Il sacrosanto racconto delle conseguenze traumatiche della violenza sulla vittima, la critica ai condizionamenti sociali che spesso non permettono ad una donna, strozzata dalla paura e dalla vergogna, di denunciare e la problematizzazione di una mascolinità tossica prevaricatrice e ipocrita perdono di valore se, alla fine, una vera vittima non esiste o se il carnefice, in fondo, è un bravo ragazzo che ha soltanto commesso un misero errore.
Dire di no
Interessante è la maniera in cui L’accusa non si limita a raccontare i suoi protagonisti, ma costruisce attorno a loro microcosmi familiari e sociali con lo scopo di indagare il contesto di provenienza. Peccato che questa indagine resti superficiale e macchinosa al punto che contribuisce soltanto ad aumentare quel senso di indeterminatezza che grava su una sceneggiatura macchinosa e farraginosa. Fatta eccezione per le prove di Charlotte Gainsbourg e Mathieu Kassovitz, nei ruoli della madra di Alexandre e del padre di Mila, le interpretazioni del cast non brillano per efficacia. Colpa di una caratterizzazione approssimativa e frettolosa dei personaggi con cui non si riesce mai veramente ad empatizzare. La stessa regia, piuttosto piatta ed elementare, non dona spessore al narrato irrigidendo anche da un punto di vista visivo ad una messa in scena che quasi scade nell’asetticità. L’accusa è un film pretenzioso, che non regge il peso delle sue ambizioni.
2 stelle e mezza