L’Abisso di Davide Enia al Teatro India: un naufragio personale e collettivo

L'abisso Davide Enia

Dal 9 al 28 ottobre al Teatro India in scena L’abisso di Davide Enia, tratto dal suo romanzo Appunti per un naufragio. Con il gesto, il canto, il cunto, si fronteggia la difficoltà di narrare il presente, tra sbarchi e annegamenti nel Mediterraneo, metafore di un naufragio personale e collettivo.

Dal 9 al 28 ottobre debutta al Teatro India il racconto urgente, profondo, attuale di Davide Enia, L’abisso – quello del Mediterraneo che ingoia i migranti e quello interiore di un uomo di mare – che il palermitano, scrittore, drammaturgo, interprete e regista di se stesso ha tratto dal suo nuovo romanzo in presa diretta da Lampedusa, Appunti per un naufragio (Premio Mondello 2018). Dopo un primo frammento composto per Ritratto di una Nazione – L’Italia al lavoro – che ha aperto la passata stagione del Teatro Argentina, raccontando l’odissea di una Guardia costiera costretta ad aggiornare il proprio mestiere addestrandosi fisicamente e psicologicamente a salvare vite umane di migranti o recuperarne i cadaveri – Davide Enia torna in scena con il gesto, il canto, il cunto, per affrontare l’indicibile tragedia contemporanea degli sbarchi sulle coste del Mediterraneo. Epopea di eroi odierni, tra vita e morte, che diventa metafora di un naufragio individuale e collettivo, una produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo Accademia Perduta/Romagna Teatri.

«Quando ho visto il primo sbarco a Lampedusa, ero assieme a mio padre. Approdarono tantissimi ragazzi e bambine. Era la Storia quella che stava accadendo davanti ai nostri occhi, la Storia che si studia nei libri, che riempie le pellicole dei film e dei documentari e che modifica la struttura del presente. Nell’arco di diversi anni, continuavo a tornare sull’isola, costruendo così un dialogo continuo con i testimoni diretti, i pescatori e il personale della Guardia Costiera, i residenti e i medici, i volontari e i sommozzatori. Parlavamo quasi sempre in dialetto, nominando i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della nostra culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, quel vuoto che frantuma la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella che non si pronuncia».

Le parole dei testimoni si fanno, dunque, carne. Il testo diventa allo stesso tempo testimonianza storica e percorso esistenziale che riguarda tutti noi: «dalla registrazione delle loro voci sono emersi frammenti di storie dolorosissime eppure cariche di speranza, nonostante risuonasse di continuo un senso di morte impossibile da gestire da soli. Le loro parole aprivano prospettive e celavano abissi. Avevano le stimmate della guerra». Sul palcoscenico è trasferita questa lotta combattuta in mare aperto, che salva e inghiotte destini umani. Un nuovo campo di battaglia dove l’allenamento, le manovre e la velocità sono determinanti per recuperare più corpi vivi in mare e sopravvivere in prima persona alle onde. La messa in scena fonde diversi registri e linguaggi teatrali, gli antichi canti dei pescatori, intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa, e il cunto palermitano, sulle melodie a più voci che si intrecciano senza sosta fino a diventare preghiere cariche di rabbia quando il mare ruggisce e nelle reti, assieme al pescato, si ritrovano i cadaveri di uomini, donne, “piccirìddi”.

L'abisso Davide Enia
Davide Enia ne L’abisso (foto di Titta Ferrante)

«Ne L’abisso si usano i linguaggi propri del teatro (il gesto, il canto, il cunto) per affrontare il mosaico di questo tempo presente. Quanto sta accadendo a Lampedusa non è soltanto il punto di incontro tra geografie e culture differenti – continua Davide Enia – È per davvero un ponte tra periodi storici diversi, il mondo come l’abbiamo conosciuto fino a oggi e quello che potrà essere domani. Sta già cambiando tutto. E sta cambiando da più di un quarto di secolo. Come raccontare, quindi, il presente nel momento della crisi? Questa domanda nasconde continue insidie. In assoluto, è sempre presente rischio di spettacolarizzare la tragedia. Il lavoro è indirizzato, quindi, verso la ricerca di una asciuttezza continua, in cui parole, gesti, note, ritmi, cunto devono risultare essenziali, irrinunciabili, necessari alla costruzione. Questo ha determinato il carattere performativo del lavoro in scena, in cui si riproietta se stessi nel preciso stato emotivo che ha generato tutto, immergendosi dentro quell’esatta condizione del sentimento, in un loop che si ripete replica dopo replica, in un ritorno continuo che non ha esito se non il suo essere rivissuto, parola dopo parola, gesto dopo gesto, suono dopo suono, trauma dopo trauma, cunto dopo cunto». La partitura musicale de L’abisso, scritta e eseguita in scena da Giulio Barocchieri, è composta secondo la logica dell’accumulo che è propria dell’esperienza del trauma. Sono note e rumori che si sommano uno all’altro, in progressione, senza scampo, creando disequilibri continui, echi distorti flebili ma persistenti, in una costruzione che nel suo procedere si svela come tramatura di una unica architettura, in cui, assieme al suono disturbato e fosco di questo presente in guerra, risuonano i canti popolari dei pescatori e le preghiere per i morti in mare.

Lo spettacolo L’abisso si inserisce nel percorso di Stagione Dalla pagina alla scena, trasposizioni teatrali della letteratura mondiale e non solo, all’Argentina: Barry Lyndon, l’opera picaresca di Makepeace Thackeray, regia di Giancarlo Sepe; e la coproduzione internazionale La maladie de la mort della Duras, inquieto confronto uomo donna colto nella versione cinematografica “live” della Katie Mitchell; Sussi e Biribissi, avventuroso testo dimenticato di Lorenzini, diretto da Giacomo Bisordi. All’India: Emma Dante rilegge La scortecata di Giambattista Basile, un affresco umano su due solitudine ai margini della società. A Torlonia la scena alle donne si apre con: La signorina Else di Arthur Schnitzer, regia di Federico Tiezzi, spietata radiografia dell’Austria degli anni Venti, dove una famiglia non esita a sacrificare la figlia sull’altare del dio denaro; seguono la trilogia di Fanny Alexander, Storia di una amicizia, dedicata ad Elena Ferrante, attorno al suo famoso L’amica geniale; la trilogia Elena Arvigo, anima e corpo di tre protagoniste dense di inquietudini; la trilogia Valter Malosti (dall’8 marzo) dedicata a tre protagoniste di capolavori letterari.

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