La recensione de L’uomo che disegnò Dio, l’opera seconda di Franco Nero con Stefania Rocca, Faye Dunaway e Kevin Spacey in un film di rinascita didascalico e affatto cinico, nonostante le apparenze
Presentato allo scorso Torino Film Festival, arriva in sala il secondo film da regista dell’attore Franco Nero, L’uomo che disegnò Dio, che per l’occasione fa tornare dietro la macchina presa l’indimenticabile Faye Dunaway e Kevin Spacey, qui al suo primo ruolo dopo lo scandalo delle molestie e la successiva assoluzione. Nonostante il bello spunto iniziale e il cast promettente, però, la seconda fatica registica dell’attore parmense si rivela una grossa delusione e un film totalmente fuori tempo massimo.
Un talento straordinario
Emanuele (Franco Nero) è un uomo solo, dal carattere scontroso e difficile, affetto da cecità ma con un talento incredibile: riesce a dipingere perfettamente volto e fattezze della persona che gli sta davanti solo ascoltando la sua voce. La sua assistente sociale Pola (Stefania Rocca) è una delle pochissime persone a conoscere questa sua capacità straordinaria, ma tutto cambia quando la vita di Emanuele si scontra con quella di due immigrate africane che si stabiliscono a casa sua: Maria (Wehazit Efrem Abraham) e la figlia Iaia (Isabel Ciammaglichella). Quando Iaia iscrive Emanuele ad un famoso talent show gli eventi cominceranno a prendere una piaga sempre più complicata, e un detective (Kevin Spacey) comincerà ad interessarsi ad Emanuele e a quel dono tanto strano quanto prezioso.
Una bella idea non sfruttata a dovere
L’idea di partenza de L’uomo che disegnò Dio era sulla carta molto interessante, e avrebbe potuto essere declinata in tante possibili storie diverse. Non è la prima volta che la cecità viene utilizzata come dispositivo narrativo, ma in questo caso il renderla parte di un’abilità straordinaria che ha paradossalmente a che vedere con l’udito e non con la vista sarebbe stato un ottimo spunto di partenza per un thriller alla Dario Argento. Nero invece preferisce parlare dell’oggi, non rimanere sospeso nel tempo o in un cinema troppo legato ad una determinata epoca e quindi ne approfitta per tirare in ballo la famelica macchina dei talent show, la questione dell’integrazione razziale ed etnica o il falso pietismo nei confronti del diverso. Niente di sbagliato nelle intenzioni, anzi, se non fosse che L’uomo che disegnò Dio non ha mai davvero la consapevolezza di ciò che vorrebbe essere. E allora Franco Nero butta dentro il calderone generi, toni e persino suggestioni diversi nel tentativo di tirar fuori un’amalgama coerente, senza però riuscire a sfruttare la bella idea di partenza né a consegnarci un film che abbia un minimo di stabilità.
Confusione e superficialità
Quest’incertezza di scrittura e di sguardo pesa come un macigno su tutta l’operazione, poiché L’uomo che disegnò Dio vuole affrontare tanti argomenti diversi senza neanche avere ben chiaro quale sia il tema del film. Di cosa vorrebbe parlarci Franco Nero in primis? A cosa tendono i suoi personaggi? La confusione nello sguardo e la superficialità nell’approccio alla materia narrativa e tematica sono perciò una diretta conseguenza di quest’incertezza, e non aiuta la causa un cast in cui tutti, persino i veterani, faticano a trovare il registro interpretativo adeguato. Se Kevin Spacey e Faye Dunaway se la cavano di mestiere nelle poche scene in cui compaiono (anche se appaiono un po’ macchiettistici), a fare più fatica sono i comprimari e i personaggi secondari. Il film infatti li dimentica completamente, o quasi, concentrandosi soltanto su Emanuele e sulla sua evoluzione e sacrificando anche così il rapporto tra lui e Iaia, unico vero perno emotivo della pellicola. La presenza di alcune dinamiche di partenza interessanti non basta infatti a giustificare una scrittura così poco precisa nel tratteggiare i suoi personaggi con maggiore profondità e complessità, ma non fa altro che aumentare il rimpianto.
Tra reazionarismo e mancato cinismo
È però curioso notare come ne L’uomo che disegnò Dio convivano due anime così opposte e contrastanti. Da una parte il cieco (perdonate il gioco di parole) reazionarismo del personaggio di Emanuele, il quale rifiuta l’idea di un figlio cresciuto da due madri, mentre dall’altra un cinismo solo apparente che si dissolve completamente nel monologo finale che Emanuele pronuncia, fin troppo didascalico e retorico. L’impressione che si ha è quella di un film che vuole tenere i piedi in due scarpe per non scontentare davvero nessuno, ma allo stesso tempo di un Franco Nero che vorrebbe parlare alle nuove generazioni più che a quelle vecchie senza trovare il modo di avvicinarle. Forse questo sarà il suo ultimo film da regista o forse no, ma se così non dovesse essere l’augurio migliore è che metta molto più a fuoco il suo punto di vista, che rinunci a certi orpelli visivi o ad una certa referenzialità per trovare uno sguardo che sia solo suo, sincero e autentico. Anche a costo di abbracciare il cinismo, se necessario, che è sempre meglio della mancanza di personalità. Perché invece, come interprete, Franco Nero di personalità ne ha da vendere.
L’uomo che disegnò Dio. Regia di Franco Nero con Franco Nero, Stefania Rocca, Wehazit Efrem Abraham, Isabel Ciammaglichella, Faye Dunaway e Kevin Spacey, in uscita nelle sale il 2 marzo distribuito da L’Altrofilm.
Due stelle e mezza
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