Da VENEZIA 81, in concorso, la nostra recensione di Maria, il biopic di Pablo Larraín sulla Divina Callas con una splendente Angelina Jolie: il regista cileno chiude la trilogia sulle donne potenti con un melodramma di grande eleganza e classicità, elevato dalla propria protagonista
Jackie come Jackie Kennedy, Spencer come Diana Spencer, Maria come Maria Callas. Il primo film in concorso di Venezia 81 è il dolente ritratto della Divina ad opera del cileno Pablo Larraín, ultimo capitolo di una trilogia dedicata alle donne forti e di potere. A prestarle il volto, le movenze e l’espressività è l’altrettanto divina (nel senso proprio di Diva) Angelina Jolie, che canta in lip-sync come Marion Cotillard ne La vie en rose e sfrutta tutto il suo magnetismo innato per regalarci una Callas sfaccettata e stratificata, una Dea che si aggrappa al proprio fascino e al proprio sconfinato talento pur di non sprofondare nell’oscura fossa dei giganti caduti.
Maria, Callas
Nella Parigi degli anni Settanta la divina Maria Callas (Angelina Jolie) vive una vita solitaria, fatta di pochi incontri e di pochissimi amici che la vedono sfiorire giorno dopo giorno. Tra questi il suo fidato maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e la governante Bruna (Alba Rohrwacher) si prendono cura di lei e dei suoi capricci, mentre la memoria di Maria viaggia al primo incontro con l’ex amante Aristotele Onassis (Haluk Bilginer) – forse l’unico uomo in grado di comprenderla davvero – e ai suoi numerosi trionfi nei teatri di tutto il mondo.
Dietro la Divina
“Non vado nei ristoranti per mangiare. Ci vado perché voglio essere venerata.” Basterebbe questa battuta, pronunciata con una calma granitica e una sicurezza di sé invidiabile all’indirizzo di un povero cameriere parigino, per condensare due ore di visione e dare un possibile senso al puzzle Maria Callas. Larraín e Steven Knight in sceneggiatura sembrano voler continuare il lavoro di destrutturazione del mito già iniziato con Spencer, soltanto che stavolta il teatro non è più la fredda tenuta reale sperduta nel Norfolk ma la più malinconica Parigi con i suoi viali alberati, la piazza del Trocadero e i suoi caffè.
La Callas di Maria è una donna tridimensionale, contraddittoria e dicotomica, una figura che dal mito sta scivolando sempre di più verso una tragedia in primis umana e poi artistica. L’autore cileno la inquadra in maniera spesso ariosa però, come se volesse conservare quel mito senza voler entrare troppo nell’intimità della sua protagonista, spesso dal basso e con un contorno musicale epico, di grande respiro, mai o quasi mai discendente. Un omaggio che si fa rispettoso e attento, ma che evita di scivolare nella più pietosa agiografia proprio perché a Larraín non interessa tanto la nascita del mito o il suo culmine, quanto piuttosto il suo epilogo.
Dal bianco e nero lucidissimo del passato al colore seppia di un presente mai così indistinto e confuso, Maria dispiega sullo schermo il racconto degli ultimissimi anni di vita della più grande cantante lirica che il mondo abbia mai conosciuto. Lo script di Knight è preciso nel puntellare con tocchi di grande raffinatezza i piccoli momenti di rimpianto e rimorso, più che i grandi momenti di gloria ormai passati, mentre la storia si fa prima circolare nel suo sviluppo e poi più lineare alternando lo splendore del passato con i rimasugli del presente. Mai troppo sopra le righe, ma abbastanza intenso da non essere anemico questo terzo e ultimo capitolo ridipinge i contorni di una figura che ha assurto al mito, riconsegnandola ad una più umana pietas.
L’eleganza del melodramma
Se in Jackie l’impronta da dramma politico era palpabile e in Spencer l’atmosfera era quella (cupissima) di un thriller di sopravvivenza, con Maria Pablo Larraín cambia ancora registro e abbraccia il melodramma lirico, quasi operistico. Un melodramma che però è trattenuto dalla propria eleganza e dal proprio rigore, oltre che da una prestazione maiuscola di Angelina Jolie nei panni della Divina Callas. Nonostante una somiglianza fisica esigua in partenza, oltre all’ovvio background culturale ed etnico molto diverso, il transfert della Jolie è encomiabile e mai forzato, lavora sulle micro-espressioni e sul linguaggio degli occhi e del corpo, cerca in sé lo spirito della Callas e la sua sofferenza più che all’esterno.
Senza nulla togliere al resto del cast (molto bravi tutti gli italiani, in particolare la Golino nella breve apparizione come Yakinthi, sorella minore di Maria) questo film appartiene totalmente alla Jolie, è disegnato e cucito su di lei e da buona diva qual è se ne appropria completamente, lasciando poco agli altri. Larraín lo sa bene, lo avverte e perciò asseconda completamente la sua protagonista, pur tenendo in mano le redini del progetto e di una solida sceneggiatura che parla anche di condizione femminile, del prezzo dell’amore e del successo, del cosa significhi dover rompere i propri legami per trovare sé stessi.
“Gli uomini, forse, solo quando sono morti possono essere gestiti” afferma la governante bruna e l’impressione è che Maria di questa battuta ne faccia quasi uno statement. È un mondo di donne quello popolato dal cinema di Pablo Larraín, e quella della Callas è una storia totalmente e sfacciatamente femminile, qualsiasi cosa significhi.
TITOLO | Maria |
REGIA | Pablo Larraín |
ATTORI | Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher, Valeria Golino, Kodi Smit-McPhee, Haluk Bilginer, Jeremy Wheeler, Kay Madsen |
USCITA | Prossimamente |
DISTRIBUZIONE | 01 Distribution |
Quattro stelle