Mindhunter è il crime che non ti aspetti. Dimenticatevi colpi di scena e azioni mozzafiato: la tensione della serie Netflix, che racconta le ricerche pionieristiche degli agenti dell’FBI Holden Ford e Bill Tench, si gioca tutta sul campo della dialettica e dello scandagliare ossessivo e frammentario. E funziona.
Mindhunter, ricerca di un metodo
La prima cosa da dire su Mindhunter è che non è un thriller. O almeno, non il thriller che ci aspetteremmo. La serie ci inganna con le prime scene perfettamente inquadrate in quello che sembrerebbe un avvincente poliziesco. Ma l’azione dura poco più di 5 minuti. Subito il tono narrativo cambia. La serie è un procedere dialettico, lento e ragionato, verso la costruzione di un metodo. I protagonisti studiano, discutono, s’affaticano di puntata in puntata nel tentativo di creare un discorso che sia fondato e che possa rendere comprensibile ciò che sembra sfuggire a qualsiasi classificazione: l’istinto omicida, quello più brutale e violento, ripetuto nel tempo e soprattutto apparentemente gratuito. Come agire quando l’unico movente che sembra rimanere è quello della pura e semplice possibilità di uccidere? Mindhunter si configura come la costruzione di una griglia che, nel momento stesso in cui inizia a fissarsi, viene invece disfatta.
Cacciatori di menti
Ma di cosa parla Mindhunter? La serie si ispira alla storia vera raccontata nel libro Mind Hunter: Inside FBI’S Elite Serial Crime Unit, scritto da Mark Olshaker e John E. Douglas. Holden Ford è un giovane agente dell’FBI che, desideroso di approfondire le sue conoscenze sulla psicologia criminale e spinto dalla curiosità verso i recenti studi in campo sociologico e psicologico, inizia a domandarsi se sia possibile elaborare una classificazione delle menti criminali in modo da comprendere le ragioni dietro il male più brutale e apparentemente senza senso, al fine di “curarlo” o almeno prevenirlo. Al progetto si aggiungono l’agente Bill Tench, insegnante dell’unità di scienze comportamentali, e la psicologa Wendy Carr (Anna Torv), ed insieme danno il via ad una ricerca pionieristica che, grazie a degli interrogatori con i più feroci assassini dell’epoca, condurrà ai primi tentativi di profiling e alla nuova definizione ‘killer sequenziali’ (serial-killer).
Narrazione frammentata con tocchi d’asfissiante iperrealismo
La narrazione di Mindhunter è dunque priva di colpi di scena o suspense nel senso tradizionale del termine. Ma la storia è tutto fuorché lineare: la narrazione procede frammentata, quasi a tentoni, e tutti i personaggi – con qualche eccezione – sembrano assorbiti esclusivamente dal lavoro che stanno svolgendo. Sappiamo pochissimo delle loro vite private o del loro passato, perché tutto quello che ci viene mostrato si svolge quasi sempre tra studio, carcere e ospedali psichiatrici. La maggiorparte della narrazione fluisce lenta dietro una scrivania, attorno alla quale i protagonisti si confrontano tra loro o interrogano il serial killer di turno. Quest’iperrealismo rende particolarmente asfissiante l’atmosfera generale, una sensazione che via via penetra sotto pelle e non ci lascia più. Impariamo a conoscere i personaggi quasi esclusivamente attraverso il modo in cui si rapportano alla ricerca che stanno svolgendo e agli assassini stessi.
Formazione di Holden Ford
L’agente Ford è il personaggio principale di Mindhunter, di cui seguiamo la trasformazione di puntata in puntata. Holden è un uomo curioso, ma ingenuo ed inquadrato. Vive dei propri schemi mentali e delle proprie rassicuranti certezze, destinate a corrodersi fin da subito, soprattutto grazie all’incontro con Debbie (Hannah Gross) studentessa di sociologia spavalda ed intelligente. È proprio lei a costituire il punto di partenza per uno stravolgimento nella vita di Ford. Debbie in qualche modo rappresenta la formazione sentimentale e sessuale del giovane agente, impreparato al rapporto con una ragazza intellettualmente impegnativa e assolutamente indipendente, che ha sempre la risposta pronta e non si lascia intimorire dalla sua professione. Questo sembra non scomporre Holden, ma è solo apparenza. L’incapacità di gestire un rapporto con una donna intellettualmente alla pari si farà presto sentire. Divenuto sicuro di sé e cristallizzatosi in nuove certezze, Holden inizia a sentirsi invincibile. Non vuole opinioni, vuole solo essere adorato. Non sarà anche lui un po’ narcisista, come i soggetti che studia?
Una coppia già iconica
Bill Tench è più anziano, con molta più esperienza, e costituisce l’elemento di freno rispetto ai metodi spesso troppo innovativi e fuori dalle righe del giovane. Questo crea un perfetto equilibrio tra i due partners, che si bilanciano perfettamente a vicenda, dando vita ad una coppia di agenti che diventa subito iconica. La scelta di Jonathan Groff per vestire i panni di Holden Ford è assolutamente geniale: il viso pulito e ingenuo dell’attore, dai connotati quasi fanciulleschi, è in contrasto perfetto con l’atmosfera noir e con gli interessi dello stesso. Ci aspetteremmo un nuovo Rust Cohle e invece abbiamo un perfettino tirato a lucido che non fuma neanche. Menzione speciale all’attore Holt McCallany per dare una caratterizzazione assolutamente perfetta all’agente Tench, uomo cinico e navigato, con una perpetua espressione interrogativa stampata in volto.
Fenomenologia del male: i serial-killers di Mindhunter
Tutti gli assassini che incontriamo nella serie sono realmente esistiti. Sono Ed Kemper, Richard Speck, Jerry Brudos e Monte Rissel, tutti colpevoli di omicidi violenti, sadici e apparentemente gratuiti. Abbiamo a che fare con personalità fortemente disturbate, sociopatici e narcisisti da manuale. Ma Ed Kemper ha un ruolo di spicco rispetto agli altri, costituendo una sorta di collante all’interno dell’arco narrativo. Ciò che lo differenzia è l’atteggiamento ostentato: parla con virtuosismo, facendo sfoggio di una retorica invidiabile e di una calma quasi serafica, oltre che di una lucidità assoluta. Sembra di assistere ad uno spettacolo teatrale, alla recitazione di un copione. Il dubbio che Kemper stia semplicemente manipolando i due agenti è una costante. Dobbiamo qui elogiare Cameron Britton, che riesce ad impersonare magistralmente uno dei più feroci ed inquietanti serial-killer degli Stati Uniti. L’interpretazione migliore di questa prima stagione.
Donne: un rapporto ambiguo e travagliato
Ad accomunare inoltre i serial-killers della serie è il loro rapporto con il sesso e con il mondo femminile. Non è stato rimarcato a sufficienza, ma ci sembra importante sottolineare invece quanto il tema sia centrale. Mindhunter è una serie di uomini protagonisti di azioni e pensieri sviluppati (anche) attorno ad un costante ragionamento e confronto rispetto all’universo femminile, che resta in disparte, oggetto di narrazione e di fantasie, attrazione e odio, ammirazione e distanza. E parliamo qui anche degli stessi agenti, l’uno alle prese con la moglie, l’altro con una fidanzata che sembra venerare ma da cui allo stesso tempo si sente minacciato ed entrambi con un’inflessibile compagna di lavoro che non fa sconti a nessuno. Il continuo fluttuare tra ammirazione e desiderio di contenimento, venerazione e odio viscerale, è ben espresso dalle parole dello stesso Kemper: «Quando vedo una bella ragazza camminare per la strada, penso due cose: una parte di me vuole portarla a casa, essere gentile, trattarla bene; l’altra parte si chiede come starebbe la sua testa conficcata su un paletto».
Un mondo in cambiamento
Mindhunter si ambienta negli Stati Uniti degli anni ’70 e riflette un mondo che sta cambiando drasticamente lasciando dietro di sé le macerie delle antiche certezze. Questo cambiamento travolge tutto, dai rapporti umani a quelli professionali, e porta la necessità di doversi confrontare con nuove sfide. C’è stata la rivoluzione sessuale, le donne ora discutono di Durkheim e non basta essere carino – o magari un agente dell’FBI – per impressionarle. Ma è cambiato il modo stesso di percepire la realtà, perché tra il bianco e nero ora c’è una gamma infinita di grigi da cogliere. Questo si riflette sulla ricerca di Ford, che in fondo si chiede: è possibile dare una spiegazione al Male più assoluto? Nasciamo criminali o è la società a renderci tali? È eticamente giusto pensare di poter prevenire l’atteggiamento criminale di qualcuno, ancor prima che il crimine sia compiuto? Qual è il limite? E se è il mondo lì fuori a deviarci, allora siamo tutti in pericolo e nessuno può dirsi davvero salvo. Anche l’ostentata sicurezza di Holden crolla inesorabilmente nell’ultimo confronto con Ed, e l’agente è costretto a ripetere ancora: «I don’t know».
Grandi aspettative per la seconda stagione
Mindhunter è una delle uscite più interessanti di quest’anno e siamo certi che farà parlare a lungo di sé. La prima stagione è stata un assaggio quasi perfetto di una serie che potrebbe esplodere nella seconda. Si ha la sensazione di esser stati preparati a qualcosa di più grosso, e che i primi dieci episodi siano stati semplicemente un lungo antefatto. D’altronde, c’è un personaggio misterioso che compare in ogni puntata per qualche secondo e che sarà probabilmente il villain della prossima stagione. E voi, avete capito chi è? Noi sì. Ma vi lasciamo con la curiosità, in attesa dei nuovi episodi in arrivo su Netflix.
Psycho Killers, qu’est-ce que c’est?
La serie ideata da Joe Penhall risente in molte parti dell’influenza di David Fincher, che ha diretto anche alcuni episodi e si è già dedicato in passato a storie di brutali serial-killer (basti pensare a Zodiac e Seven). L’ambientazione anni ’70 è ricreata soprattutto da una colonna sonora, spesso auto-ironica e caratterizzante, con tutti i successi del decennio, da Psycho Killers dei Talking Heads a In the Light dei Led Zeppelin. Insomma, una serie particolare e ragionata per gli appassionati di un crime sofisticato, fatto di peripezie mentali e scavo psicologico.