Intervistato da Variety, il regista iraniano Mohammad Rasoulof, vincitore alla Berlinale con There Is Not Evil e attualmente tenuto in ostaggio nel suo Paese, racconta del valore del suo film come atto di resistenza contro l’oppressione del regime.
Vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino con There Is No Evil, Mohammad Rasoulof è uno dei più importanti registi iraniani, anche se nessuno dei suoi film è stato proiettato nel suo Paese a causa della censura e delle restrizioni volute dal regime. Già condannato nel 2011 a sei anni di prigione e a 20 di stop come cineasta per la pellicola Goodbye, con cui aveva vinto due premi a Cannes, e poi rilasciato sotto cauzione, oggi Rasoulof vive praticamente come un ostaggio, impossibilitato a lasciare l’Iran a causa del suo cinema impegnato, con cui instancabilmente denuncia quello stesso sistema di ingiustizia e oppressione che oggi lo tiene prigioniero. Per questo motivo sabato scorso a ritirare il premio alla Berlinale è stata la figlia Baran Rasoulof, ma il regista è riuscito a parlare dall’Iran con la rivista Variety. Riportiamo qui nel nostro articolo la traduzione dell’intervista integrale.
There Is No Evil consiste in quattro episodi tra loro connessi e, semplificando, tratta il tema della pena di morte in Iran. E’ corretto?
I quattro episodi che compongono il film fanno i conti con questo tema, sì, ma c’è dell’altro. Riguardano più generalmente il valore della disobbedienza e ci parlano delle responsabilità che ti assumi quando ti opponi a un sistema, quando resisti contro il Potere. Ti assumi la responsabilità per il tuo atto di resistenza, per dire no? E qual è il prezzo che devi pagare? Se penso a me, posso dire che resistendo… mi sono privato di molti aspetti della vita, ma sono anche fiero di questa scelta. Anche se non sono forse riuscito a trasmetterne tutta la bellezza in questo film, credo fermamente che il risultato della resistenza sia assolutamente positivo…. e mi sprona ad andare avanti e resstenre contro l’assurdo ed eccessivo sistema di censura in cui viviamo [in Iran].
Quanto è stato difficile realizzare questo film?
Non mi viene vietato di lavorare. Il problema è che le autorità trovano altre scappatoie per impedirti di eseguire il tuo lavoro. Non ti bloccano, ma rendono la tua vita sempre più difficile di volta in volta, non accordandoti permessi e impedendoti di lavorare come vorresti. E’ un sistema molto complesso, non lo dicono ufficialmente. Ma questa è anche la bellezza del progetto. E’ un forte atto di resistenza al Potere e al sistema di censura. Attorno a me si è cementata un’intera troupe che ha condiviso la mia visione e il mio desiderio di resistere a questo sistema e di realizzare questo film a qualunque costo. In termini di effettiva difficoltà, non c’è modo per me di illustrarvi o spiegarvi lo sforzo che abbiamo dovuto affrontare per realizzare il progetto. Posso dirvi però che prima di cominciare le riprese ho ricevuto la mia ennesima condanna alla prigione. E dunque mentre giravamo il film aspettavo le ultime informazioni dalla Corte d’Appello, perché speravo che avrei finalmente visto la mia sentenza cambiare. Ogni mattina controllavo il telefono per vedere se avrei potuto continuare a lavorare al film… è stato estremamente difficile, estremamente angosciante, ma fortunatamente me la sono cavata e ho potuto realizzare il mio film.
La condanna al carcere è poi arrivata?
Alla fine due mesi fa, durante l’ultima settimane di riprese, mentre giravamo l’ultimo dei quattro segmenti del film… ho ricevuto un messaggio che mi informava che la corte d’appello aveva confermato la sentenza. Dunque adesso dovrò scontare un altro anno di prigione. Controllo ad ogni momento il mio telefono, aspettando il messaggio che mi informi sul quando questa sentenza sarà messa in atto.
E per quanto riguarda il divieto di viaggiare? Qual è ora la situazione?
La cote ha deciso che non potrò viaggiare per due anni. Sfortunatamente, non è mai stato reso chiaro se questo periodo di tempo sia cominciato dalla data del verdetto, nel luglio 2019, o dal momento in cui mi venne impedito di lasciare il Paese, l’ultima volta che sono tornato in Iran, nel settembre 2017. Parlando tecnicamente sono impossibilitato a lasciare il mio Paese da quasi due anni e mezzo. Non m’importa molto perché sono in una situazione assolutamente ambigua. La cosa più importante per me è la soddisfazione di aver potuto finire il mio film ed essere riuscito a farlo uscire fuori da questo Paese, così ora è al sicuro. Sono dispiaciuto che non potrò essere a Berlino per guardare il film insieme al pubblico; comunque, il diritto di scegliere se essere presente o meno al festival semplicemente non mi appartiene. Imporre questo tipo di restrizioni rivela molto chiaramente la natura intollerante e dispotica del governo iraniano.
Il film è stato menzionato dalla stampa iraniana quando è stato selezionato alla Berlinale?
Un paio di piccole menzioni, sì… una rivista conservatrice ha dichiarato che quello di Berlino non è poi un festival così importante, perciò la mia assenza non è poi un grande problema. Ecco tutto. Non ho ricevuto alcuna reazione dalle autorità, ma me le aspetto.
Come le tensioni con Trump stanno impattando il lavoro dei cineasti in Iran?
C’è una reazione molto violenta da parte dei conservatori e il suo impatto sul cinema è abbastanza ovvio. Di recente al Fajr Film Festival [in Tehran] metà dei film presentati erano interamente finanziati dal governo e dalle istituzioni. Più nello specifico, da investimenti militari dietro questi fondi. Così il cinema indipendente sta diventando sempre più irrilevante, sempre meno. E le pressioni subite da chi fa cinema indipendente indicano che le forze militari e di sicurezza in Iran hanno un piano specifico finalizzato a usare il cinema come uno strumento nelle loro mani.
E per quanto riguarda la tua vita come cineasta? Il clima attuale in Iran ha peggiorato le cose?
L’attuale clima mi sta spingendo sempre più ai margini lasciandomi senza scelta: devo lavorare sotto copertura e non ufficialmente. Non vedo alcuna possibilità per me di ritornare nell’orizzonte del cinema ufficiale iraniano. La corruzione del sistema non ti lascia altra via. Ogni regista indipendente, anche se si percepisce come molto sovversivo, non ha altre scelta che lavorare a progetti che sono di fatto finanziati dagli apparati militari e dalle forze dell’ordine. Se vuoi fare parte del sistema devi lavorare ai loro progetti e secondo le loro direttive.
Qui trovate l’intervista originale a Mohammad Rasoulof, condotta per Variety dal giornalista Nick Vivarelli.