Con Molly’s Game, Aaron Sorkin passa dietro la macchina da presa e realizza un film bifronte. Da un lato la storia di una donna che penetra in un sistema dominato dagli uomini riuscendo a dominarlo e dall’altro lucida riflessione sui limiti dello storytelling tradizionale.
Il miglior sceneggiatore di Hollywood e dintorni
Una cosa è meglio chiarirla subito: Aaron Sorkin è il miglior sceneggiatore attualmente in circolazione a Hollywood e dintorni. Ecco perché la visione di Molly’s Game, il suo esordio dietro la macchina da presa, non può non alimentare aspettative di un certo tipo. Perché i suoi script sono in realtà dei saggi su come si scrive una storia, pur essendo ben lungi dal limitarsi a raccontare storie. Poi, sia ben chiaro, lo fanno e anche benissimo ma, sotto la superficie narrativa, celano strutture solo apparentemente rigide che, partendo dall’infinitamente piccolo – che sia il manager che tenta di risollevare una squadra di baseball in crisi attraverso un algoritmo, un nerd che si inventa un social network per prendersi gioco di chi lo ignora o semplicemente Steve Jobs – si allargano in maniera progressiva fino a generare altre sfere di significato.
Lo stile di Sorkin
E la cifra della grandezza di Sorkin ce la dà proprio il suo restare strettissimo sui personaggi, a costo di dilungandosi in tecnicismi che, ad un primo sguardo, potrebbero risultare addirittura ostici al neofita. Poi però, tra le pieghe di dialoghi taglienti e spesso anche volutamente verbosi, ecco aprirsi squarci di senso inaspettati. È ormai talmente riconoscibile lo stile di Sorkin che, The Social Network a parte, ogni film scritto da lui tende a imprimersi nella memoria come “un film di Aaron Sorkin” polverizzando, di fatto, qualsiasi tentativo di personalizzazione stilistica da parte del regista di turno. Ovvio che, a un certo punto, l’autore abbia pensato di fare da solo. Come sempre partendo da una storia vera. E che storia!
La trama
Molly Bloom (Jessica Chastain) è una giovane promessa olimpionica dello sci che vede ogni suo sogno di gloria infrangersi dopo una rovinosa caduta in gara. Per guadagnarsi da vivere inizia quindi a lavorare per un organizzatore di partite di poker clandestino che le spalanca le porte di un sottobosco fino ad allora sconosciuto, per accedere al quale star hollywoodiane, mercanti d’arte e miliardari fanno la fila. Da lì a decidere di aprirsi una società tutta sua, è un attimo. Così Molly si sposta da Los Angeles a New York e costruisce un impero del gioco, riuscendo a muoversi sempre sullla sottile linea di confine tra legalità e crimine. I problemi nascono quando, insieme ai magnati dell’industria, iniziano a farsi avanti anche alcuni esponenti della mafia russa.
Due livelli di racconto
Adattando per lo schermo il memoir della vera Molly Bloom, Sorkin sfata uno dei principali tabù di Hollywood, ossia riuscire a realizzare un film sul poker che non sia ad appannaggio esclusivo di chi già ne conosce le regole. Il gioco d’azzardo è infatti per lui una scusa per lavorare su due livelli distinti di racconto. Il primo – quello più ovvio – è quello di una donna che riesce a penetrare in una (micro)società abitata essenzialmente da uomini e a comprenderne le logiche di potere fino a ritrovarvisi in cima. In questo la scelta di Jessica Chastain per il ruolo di protagonista è perfettamente funzionale allo scopo, richiamando alla mente un altro personaggio da lei interpretato che era calato in un ambiente dall’alto tasso testosteronico, Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow.
Molly Bloom: vittima o abile manipolatrice?
Poi c’è un secondo, e più profondo, livello narrativo che ha invece più a che fare con la struttura. Molly’s Game si muove infatti su un piano temporale presente, che è quello del rapporto tra la protagonista e il suo avvocato Charley Jaffey (Idris Elba) in vista del processo e su un altro in cui le vicende pregresse vengono narrate attraverso le pagine della biografia di Molly, che fin da subito intuiamo non corrispondere per forza di cose alla verità, ma solo alla versione dei fatti che la donna ritiene più opportuno raccontare. Attraverso questo escamotage – simile, per più di un aspetto, a quanto fatto di recente nel bellissimo I, Tonya – Sorkin ragiona sui limiti dello storytelling tradizionale con la lucidità che lo contraddistingue da sempre, invitando lo spettatore a chiedersi, più di una volta, se Molly sia una vittima o un’abile manipolatrice e, allo stesso tempo, realizza il suo film più classico.
Il rischio di uno sceneggiatore che passa alla regia
Classico perché non si nega in toto le possibilità emotive del cinema di area mainstream – come, ad esempio, accadeva in Jobs – e permette alla figura di Molly Bloom di compiere la sua parabola salvifica in modo tutto sommato assai tradizionale. Lo stile di regia di questo “maturo” debuttante è interamente al servizio della storia, oltre che assai abile nel districarsi tra le numerose ellissi narrative ma, avendo Sorkin lavorato con registi del calibro di David Fincher e Danny Boyle, c’è poco da stupirsi. Il rischio, quando uno sceneggiatore decide di dirigere, è che l’amore per la propria storia sia tale da limitare le proprie capacità di sintesi – basti pensate a Charlie Kaufman e all’indigeribile Synecdoche, New York – e invece Sorkin, pur concedendosi ampiamente di sforare le due ore, realizza un’opera impeccabile e coerente. Anche se, del resto, dal miglior sceneggiatore attualmente in circolazione a Hollywood e dintorni un po’ c’era da aspettarselo.
Molly’s Game, diretto da Aaron Sorkin, con Jessica Chastain, Idris Elba, Kevin Costner e Michael Cera sarà in sala da giovedì 19 aprile, distribuito da 01 Distribution.