La recensione di Navalny, il documentario premio Oscar 2023 del regista canadese Daniel Roher che racconta il tentato assassinio e il ritorno in Russia di Alexei Navalny, il principale oppositore al regime di Vladimir Putin
Torna nelle sale, dopo essere uscito già a maggio dello scorso anno, Navalny del regista canadese Daniel Roher, che dopo essersi già aggiudicato Bafta e Critics’ Choice Award al miglior documentario aggiunge al suo palmares l’Oscar vinto due settimane fa. Una pellicola che non fa sconti al potere, dura e tenera allo stesso tempo, e che ridicolizza in toto il regime sanguinario di Vladimir Putin e dei suoi collaboratori più fedeli.
Persona non grata
Il 20 agosto 2020 l’oppositore russo Alexei Navalny è stato avvelenato con l’agente nervino Novichok durante un volo da Tomsk a Mosca, ed è stato ricoverato in gravi condizioni in un ospedale di Omsk e messo in coma dopo un atterraggio di emergenza. Due giorni dopo, a causa dei timori legati alla sua sicurezza, è stato trasferito all’ospedale Charité di Berlino, in Germania. L’uso dell’agente nervino è stato confermato da cinque laboratori certificati dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW), nonostante le autorità russe abbiano continuato nelle settimane successive a screditare queste ipotesi affermando che si trattasse di un semplice problema medico. Navalny ha incolpato il presidente russo Vladimir Putin per il suo avvelenamento, mentre il Cremlino ha ripetutamente negato il coinvolgimento del presidente o dei servizi segreti russi. Il giornalista di Bellingcat Christo Grozev e Maria Pevchikh, capo investigatore della Fondazione anticorruzione di Navalny, hanno perciò deciso di indagare fino a far emergere i dettagli di un complotto che indica il coinvolgimento di Putin e che rischia di mettere tutte le persone vicine a Navalny in pericolo di vita, inclusi sua moglie Julija e i suoi figli Daria e Zakhar.
Un thriller che non ha nulla di inventato
Se Navalny fosse stato uno spy movie sulle orme di John le Carré, lo avremmo probabilmente salutato come un thriller avvincente, tesissimo e ben congegnato. Il problema è che qui non c’è nulla di inventato o di ingigantito. Daniel Roher non tocca nulla della storia che racconta perché non ce n’è bisogno, lascia che siano i protagonisti (e soprattutto il protagonista) a parlare, si affida alla pura e semplice cronaca, alle testimonianze e alla verità. Non è neanche un film politico questo Navalny perché probabilmente non ha alcun interesse ad esserlo, piuttosto è un film sulla politica e su come quest’ultima venga usata a scopo puramente propagandistico infischiandosene del suo fine primario. Lo dice anche lo stesso Navalny all’inizio di questo bel documentario, lui vuole un thriller e non un pietoso film sulla sua memoria (a meno che, aggiunge con un punta di ironia, nel frattempo non sia già stato ucciso). Daniel Roher lo accontenta rimbalzando quasi tra echi del Sidney Lumet che fu e la sfacciataggine di un Michael Moore, consegnando alla storia del cinema e a quella con la S maiuscola un film che fa a pezzi una figura, un regime, dei fantocci al governo e un presidente.
La capacità di sorprendere
Il momento in assoluto più sconvolgente di questo Navalny arriva all’incirca dopo 50 minuti ed è un pugno allo stomaco che lascia sbigottiti e increduli, profondamente arrabbiati e divertiti allo stesso tempo. Una scena che probabilmente farà scuola e alla quale, anche nel caso in cui si conoscessero già gli esiti di ciò che accade sullo schermo, è impossibile restare indifferenti. Navalny dice tutto quello che ha dire in quella scena lì, tra i volti rigati dalle lacrime o attoniti dei presenti e la sensazione che nulla di quello che stiamo vedendo sia possibile, che non sarebbe mai potuta accadere una cosa simile nella realtà. È una scena potentissima di cinema puro, “girata” e montata con una precisione chirurgica e che regala quasi dieci minuti di sospensione non dell’incredulità ma della realtà vera e propria, tanto sembra assurda. Navalny però riesce a tenere perfettamente le redini del racconto anche nell’ultima parte, e l’arrivo di Alexei a Mosca nel finale è un altro esempio magistrale di gestione e costruzione della tensione. In mezzo c’è un film fatto di uomini e donne imperfetti ma coraggiosi, di madri e di padri, di figli costretti a vivere quasi in esilio forzato e di una lontananza dalla famiglia e dalla Madre Russia insopportabile. Ma soprattutto è un film che parla di lotta per il diritto alla vita e alla libertà, cose che a noi sembrano scontate ma che a quattro ore di aereo di distanza non lo sono affatto.
Il rifiuto del moralismo
Navalny è insomma un documentario di grande lucidità e coerenza che non cerca mai il sensazionalismo o di essere moralizzatore puntando il dito verso “il nemico”, ma che si limita ad esporne le debolezze, gli errori, a raccontarne le paure mai sopite e mai dichiarate e di conseguenza tutte le fragilità politiche. Perché in fondo il percorso che Alexei Navalny racconta nel film non è altro che un cambiamento naturale e inevitabile dopo anni di un regime oscurantista e feroce, un cambiamento che parte dalla coscienza di pochi per smuovere un intero popolo, quello russo. È una storia terribile ma anche per certi versi dolce quella raccontata da Daniel Roher, ma è anche un ritratto per certi versi spietato di ciò che rimane a chi fonda il proprio potere sulle menzogne e la paura: la verità. Quella parola tanto temuta, tanto ostracizzata ma che porta con sé un grido assieme disperato e di speranza, una nuova consapevolezza, la visione di un futuro nuovo. Come già scritto all’inizio di questa recensione non c’è nulla d’inventato in Navalny, non ce n’è stato bisogno. È tutto vero, che a Putin piaccia o no.
Navalny. Regia di Daniel Roher con Alexei Navalny, Christo Grozev, Maria Pevchikh, Julija Navalny e Leonid Volkov, uscito oggi nuovamente nelle sale distribuito da I Wonder Pictures.
Quattro stelle