La nostra recensione di Palazzina LAF, l’esordio registico di Michele Riondino con Elio Germano già presentato alla Festa del Cinema di Roma: un vero fatto di cronaca di fine anni ’90 diventa il grimaldello di una storia per raccontare il sopruso di un Sistema ai danni dei deboli
Prima di sentirlo recitare nei panni del perfido Magnifico in Wish, Michele Riondino ci racconta un’altra forma di tirannia e di sopruso in Palazzina LAF, il suo esordio registico già presentato alla Festa del Cinema di Roma con protagonista Elio Germano. Un film che declina la propria rabbia in una cupezza crepuscolare e selvaggia, quasi da thriller o da urban western, e che denuncia un gravissimo fatto di mobbing avvenuto alla fine degli anni’90 tra gli operai dell’Ilva di Taranto. Riondino concede poco al pietismo e affonda spesso il colpo, anche se forse ancora un po’ più di coraggio non avrebbe sfigurato.
Non è il Paradiso
Caterino (Michele Riondino) è un operaio che vive in una masseria caduta in disgrazia a causa della vicinanza a un impianto siderurgico, e che sta per sposarsi con Anna (Eva Cela) con cui condivide il sogno di andare a vivere in città. Quando il dirigente Basile (Elio Germano) decide di fare di lui una spia per individuare gli operai di cui liberarsi, Caterino comincia a pedinare i colleghi con lo scopo di denunciarli. Ben presto, non comprendendone il degrado, chiede di essere collocato anche lui alla Palazzina LAF (laminatoio a freddo), il reparto-lager dell’Ilva riservato agli operai “scomodi”. Sarà lì che Caterino scoprirà che ciò che credeva un paradiso in realtà è un inferno.
Sulle orme di Rosi e di Petri
Quando si parla di cinema di denuncia, in Italia, lo sguardo e il fulcro del discorso si rivolgono sempre e comunque verso i gloriosi anni ’70, decennio cardine del cinema di Francesco Rosi, Elio Petri, Damiano Damiani, Pasolini e di tutta una serie di autori che raccontavano in chiave disillusa e feroce la lotta tra proletariato e una nuova borghesia di spietati arricchiti, in cui sangue e denaro avevano lo stesso colore. Perché è sempre lì che si finisce, a quel conflitto ancestrale tra deboli e potenti, poveri e ricchi, derelitti e privilegiati. Palazzina LAF raccoglie quindi quest’eredità scomoda, ma il debutto di Michele Riondino dietro la macchina da presa sembra voler andare oltre quest’eterna diatriba.
Riondino infatti è tarantino di nascita e questo suo attaccamento alla vicenda, anche da un punto di vista personale, gli garantisce un allargamento della prospettiva e della visione d’insieme in modo da inglobare una sorta di mea culpa privato e collettivo alla rabbia e all’urgenza di denuncia, senza che però sia necessaria una redenzione a tutti i costi. L’attore pugliese, coadiuvato in sceneggiatura da Maurizio Braucci, possiede infatti l’intelligenza di non voler cedere ad un cinema consolatorio o assolutorio e il coraggio di portare avanti la propria filosofia fino in fondo, nonostante qualche momento di indecisione soprattutto nella gestione dei personaggi secondari.
Un non luogo senza libertà
Ed è interessante soprattutto la rappresentazione che Palazzina LAF dà dell’Ilva, come fosse una specie di fossa dantesca coi suoi gironi, i suoi burocrati demoniaci a capo delle varie sezioni e la tossicità di un ambiente in cui non c’è libertà, non c’è speranza. Ne è una dimostrazione il viscido e immorale Basile, interpretato da un sempre perfettamente centrato e controllato Elio Germano, che tenta Caterino Lamanna promettendogli un cospicuo aumento di stipendio e la possibilità di lavorare senza lavorare, in un perenne riposo scandito dai colpi degli operai che giocano a ping pong e dalle invettive di questi ultimi contro i padroni. Invettive che Lamanna sarà ovviamente chiamato a riferirgli.
C’è quindi una presa di consapevolezza sempre più graduale dello spettatore (ma non di Caterino) nei confronti di questo trattamento bestiale e ingiusto che sminuisce i lavoratori sia come professionisti che come uomini, e che ha il solo scopo di cancellare con un colpo di spugna le coscienze, le ritorsioni volte a chiedere maggiore diritti, la dignità stessa del lavoro. Grazie alla colonna sonora firmata da Teho Teardo che spazia tra i generi addentrandosi persino nel pop e nel sacro, come nella scena d’apertura del funerale tra fragori che sembrano tuoni, Palazzina LAF svela quindi anche un’anima contemporanea che, invece di levigare il dramma, arriva a esacerbarlo.
La classe operaia va all’inferno
Con questa opera prima strabordante nei suoni, nella scelta delle inquadrature, nel tema della riscoperta della propria dignità e della lotta per preservarla, Riondino si fa voce degli ultimi a cui è stato promesso tanto ma a cui non è stato dato nulla (o quasi). In bilico tra commedia, dramma sociale e thriller con delle punte di grottesco e surreale acidulo, questa lucida disamina degli effetti devastanti dell’oppressione sociale, culturale ed economica nei confronti dei più esposti e indifesi comincia in un paradiso fittizio e sprofonda verso l’inferno. E se lo stesso Petri 50 anni orsono sapeva che la classe operaia non fosse destinata al paradiso, Riondino quel paradiso non prova neanche a cercarlo.
Prima c’erano Ludovico Massa e la sua alienazione, e c’era quel finale ambiguo sospeso tra sogno e realtà; ora c’è Caterino Lamanna e un’alienazione di cui non avrà mai coscienza, perché per lui e per gli altri della Palazzina LAF le porte dell’aldilà e di un ipotetico paradiso non si spalancheranno mai davvero. Perché in Italia di lavoro si moriva e ancora si muore, ma anche il non lavorare può diventare un inferno.
TITOLO | Palazzina LAF |
REGIA | Michele Riondino |
ATTORI | Michele Riondino, Elio Germano, Eva Cela, Vanessa Scalera, Domenico Fortunato, Gianni D’Addario, Pierfrancesco Nacca |
USCITA | 30 novembre 2023 |
DISTRIBUZIONE | BiM Distribuzione |
Tre stelle e mezza