Con Pinocchio Matteo Garrone restituire senso e profondità a un racconto che, in un secolo abbondante di vita e numerose trasposizioni filmiche, ha corso il serio rischio di vedere il proprio valore affievolirsi o, in ogni caso, usurarsi. Il risultato è uno spettacolo per gli occhi che, pur mirando a un’ampia platea, non rinuncia all’anima.
L’incontro tra Garrone e Benigni
Fin dall’inizio delle riprese – ma in realtà già alla semplice notizia che, a intepretare Geppetto, sarebbe stato Roberto Benigni – il Pinocchio di Matteo Garrone è stato oggetto di una curiosità spasmodica. Ci si chiedeva, da un lato, se la rigorosa estetica dell’autore di Dogman sarebbe stata in grado di imbrigliare la fisicità spesso strabordante dell’attore/regista toscano e, più in generale, se il rapportarsi con un’icona universale come quella creata a fine ‘800 da Carlo Collodi non potesse limitare in partenza i tratti distintivi di un stile da sempre molto connotato come quello di Garrone.
Un soggetto rischioso
Molte erano, insomma, le aspettative verso un’opera per più di un verso insidiosa, soprattutto se consideriamo come il burattino di legno fosse già costato allo stesso Benigni, nel 2002, il più cocente flop della propria carriera. Garrone, dal canto suo, aveva già dimostrato di poter affrontare temi più apertamente favolistici nell’ottimo Il racconto dei racconti uscendone sostanzialmente indenne. Al netto, quindi, della garanzia rappresentata da un regista che non ha (ancora) mai sbagliato un film, restava da capire come si sarebbe approcciato ad una storia che, almeno sulla carta, offre così pochi margini di intervento.
Garrone alle prese con un film per famiglie
Il sospetto che Garrone potesse sfruttare – e magari, perché no, anche amplificare – la componente più dark di una narrazione che ha, comunque, a tratti, tinte assai cupe, non trova riscontro in un’uscita natalizia che, per forza di cose, indirizza il film su un pubblico più eterogeneo rispetto ai suoi standard. Il che, se vogliamo, alza ulteriormente la posta in gioco. Perché , a quel punto, hai due possibilità. O prendi la via della modernizzazione a tutti i costi, oppure volgi lo sguardo al passato, cercando magari anche di bypassare l’estetica del Pinocchio televisivo di Comencini, per recuperare lo spirito originario dell’opera.
Un ritorno alle origini
Garrone sceglie intelligentemente questa seconda strada e si rifa in tutto e per tutto, per sua stessa ammissione, alle tavole di Enrico Mazzanti che accompagnavano le prime edizioni del romanzo di Collodi, ma non solo. Ciò che sembra premergli di più è la ricollocazione paratestuale del personaggio di Pinocchio, visto come perfetta metafora della condizione umana. Non dimentichiamo infatti che, oltre al suo scopo più dichiaratamente pedagogico, “Pinocchio” – il libro – è un saggio acutissimo sulla miseria, sia materiale che umana. E proprio da qui parte Garrone. Dalla descrizione di un microcosmo antropomorfo all’interno del quale nessuno possiede nulla, inseriti in uno scenario fatto di paesaggi spogli e chiaroscurali, fortemente debitore della scuola pittorica dei macchiaioli.
Il Geppetto di Roberto Benigni
Su questa traccia si innesta l’interpretazione più intensa di sempre di un Roberto Benigni che, incredibilmente invecchiato e smunto, dona al suo Geppetto un’aura di umile dolcezza che funge da cornice emotiva per tutto il film. Ed è davvero un piacere vedere il comico toscano tornare a recitare in un signor film dopo gli orridi La tigre e la neve – suo ultimo film da regista – e il Woody Allen (che più sbagliato non si può) di To Rome with Love. Ottima anche la prova del piccolo Federico Ielapi che, alla sua prima esperienza cinematografica e a fronte di ore e ore di trucco, si cala nei panni legnosi del burattino senza fili con l’agilità di un attore ben più consumato.
Il cast
Ma è tutto il cast a funzionare a meraviglia, dal Gatto e la Volpe di Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini – quest’ultimo anche co-sceneggiatore della pellicola – ai tanti caratteristi resi irriconoscibili dal make-up – il ricorso alla CGI è pochissimo in questo autentico inno all’artigianato lo-fi – con una particolare menzione per il giudice scimmiesco di Teco Celio e la Lumaca di Maria Pia Timo. Tornando al rischio, accennato all’inizio, che lo stile di Garrone potesse perdersi all’interno di una narrazione così “popolare”, l’autore fuga ogni dubbio nella scene ambientate nel Paese dei Balocchi e con la trasformazione di Pinocchio e Lucignolo in ciuchini, degna del John Landis di Un lupo mannaro americano a Londra.
In conclusione
Matteo Garrone riesce insomma nella scommessa di restituire senso e profondità ad un racconto che, in un secolo abbondante di vita e numerose trasposizioni filmiche, ha corso il serio rischio di vedere il proprio valore affievolirsi o, in ogni caso, usurarsi. Il risultato è uno spettacolo per gli occhi che, pur mirando a un’ampia platea, non rinuncia alla delicatezza del gesto e all’emotività. In una parola: all’anima. Ennesima conferma di un autore che, dopo lo straordinario Dogman, sembra arrivato all’apice della sua maturità artistica.
Pinocchio, diretto da Matteo Garrone e interpretato da Roberto Benigni, Federico ielapi, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo e Gigi Proietti, sarà in sala da giovedì 19 dicembre, distribuito da 01 Distribution.