Vi siete sempre chiesti quanto guadagni un artista per la riproduzione dei suoi brani su Spotify, Amazon Music, Apple Music o Youtube Music? Ecco la risposta che vi sorprenderà: non è tutto oro quello che luccica
Trenta secondi: parte tutto da lì, senza quel tempo di ascolto non si iniziano neanche a calcolare gli stream delle canzoni caricate online e che (qualora si riescano a fare grandi numeri) portano anche qualche soddisfazione a livello economico. Quanto? Beh, meno di quello che si può immaginare, anche se le piattaforme di streaming musicali, solitamente usate con sicurezza attraverso una semplice VPN Italia, stanno cercando di incentivare tali condivisioni per aumentare il numero degli abbonati. La distribuzione però non segue uno schema fissa, ma viene dettata dal mercato e anche dalle scelte industriali che i vari YouTube, Spotify ed altri decidono di perseguire. Scopriamo insieme brevemente quali sono le logiche che fanno capire quanto rendono le piattaforme di streaming online.
Spotify paga un euro ogni 334 ascolti, ma c’è chi è più generoso
Le scelte industriali della discografia ormai sono profondamente diverse da quanto fatto in passato (ormai basta banalmente pensare che la vendita dei cd non è un fattore rilevante nel determinare il “successo” di un cantante): oggi tocca invece contare il numero di riproduzioni, appoggiandosi poi ai coefficienti di conversione che ognuna delle piattaforme corrisponde agli artisti. Nel momento in cui si prova – e si spera in alcuni casi – di passare all’incasso, bisogna andare a fare i conti della serva.
Quante riproduzioni bisogna fare per mettersi in tasca un euro? Su Apple Music ne bastano 112 (non sono pochi, vista la diffusione relativa della piattaforma), mentre su YouTube Music sono 139. Poi c’è Amazon Music che arriva a 278, mentre quello meno generoso è YouTube (Official Artist Channel) – video che guardano davvero in tanti: per conquistarsi un euro di guadagno tocca mandarli in riproduzione per almeno 667 stream. E Spotify? Sono 334, ma non bisogna farsi trarre in inganno da queste cifre. Infatti il conto e la potenziale riduzione degli importi non finisce qui.

Dove prendere altre potenziali fonti di guadagno per gli artisti
Non è tutto oro quel che luccica: una volta raggiunta la quota necessaria per incassare un euro, quella cifra non diventa certo guadagno per l’artista in toto. No, le piattaforme frazionano in percentuale quel guadagno, cedendo alla casa discografica o a chi detiene i diritti della canzone una parte dell’incasso dagli stream. Anche in questo caso, essendo aziende private, le varie piattaforme fanno una divisione soggettiva di tale ammontare: nel caso di Apple Music ad esempio, all’artista viene corrisposto il 52% di quanto raccolto (più generosa in fase iniziale, ma poi resta in cassa ben il 48%). Percentuali simili invece sia per Amazon Music che per Spotify, che trattengono il 30% e pagano il restante 70% all’artista – che tuttavia dovrà poi fare altri conti e altre divisioni (dalla retribuzione corrisposta alla casa discografica, al produttore, agli autori della canzone e non solo all’interprete).
Il discorso quindi potenzialmente porta a una considerazione conclusiva: quello che alla fine finisce nelle tasche dell’artista viene frazionato – e parecchio – dai tanti passaggi intermedi e non rendono lo streaming una fonte di guadagno sostenibile sul medio/lungo periodo (magari una canzone va particolarmente bene, ma quando si riducono le views che succede?). Da dove arrivano però altre potenziali entrate per gli artisti? Come guadagnano? Queste alcune delle altre fonti di cui bisogna tenere conto: album / disco fisico, concerti / esibizioni live, merchandising, sponsor e social network per dire soltanto alcune potenziali da poter esplorare che si affiancano alla rivoluzione digitale degli ultimi anni
