La nostra recensione di Reflection, gelido e lacerante dramma del regista ucraino Valentyn Vasyanovych dall’estrema ma rigida cura formale, sulla guerra in Donbass del 2014, presentato in concorso a Venezia 78
Ad oggi, con in corso un conflitto armato causato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, le immagini di Reflection, dramma incentrato proprio sulla guerra in Donbass nel 2014, assumono una coloritura ancor più tetra e funesta. Dopo aver conquistato la sezione Orizzonti nel 2019 con Atlantis, il regista ucraino Valentyn Vasyanovych è tornato alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, questa volta nel concorso ufficiale, con un film lacerante, compassato, intimamente disturbante. Il riflesso di una guerra che sembrava così lontana dalla quotidianità di un qualunque cittadino europeo. Uno dei segnali d’allarme di un conflitto che sta mietendo migliaia di vittime e, in maniera più o meno diretta, rientra ormai tra le preoccupazioni di tutti.
Il logorio della guerra
Serhiy (Roman Lutskyi) è un chirurgo ucraino che sfrutta le sue competenze mediche per soccorrere i feriti della guerra che si sta combattendo al confine orientale del suo Paese. È separato da sua moglie e vorrebbe ristabilire un legame con la figlia. Quando decide di partire volontario per il fronte, il protagonista viene catturato dalle forze russe. Rinchiuso in una fetida prigione, il medico viene torturato e costretto a collaborare con il nemico. Una volta liberato e tornato a casa, Serhiy è l’ombra di se stesso. Gelido come la neve che cade su un Paese ferito. Un terribile segreto lo dilania, mentre tenta di rimettere insieme i pezzi della sua esistenza.
La geometria dell’orrore
Esiste una maniera migliore per rendersi utile durante un conflitto che minaccia la propria patria e i propri affetti? A spingere Serhiy ad appendere al chiodo il bisturi e imbracciare un’arma da fuoco è un misto tra senso del dovere e la necessità di dimostrare a sua figlia che anche lui può agire attivamente nel conflitto. Come se prendersi cura dei feriti non fosse abbastanza. Il risultato della scelta di partire volontario è il completo annullamento del protagonista in quanto persona. Trasformato in un burattino governato dal nemico, Serhiy vive un perpetuo conflitto morale, il germe di un logoramento che lo accompagnerà anche al suo ritorno a casa. Non uscirà mai dalla sua prigione. Un senso di claustrofobia e costrizione che è perfettamente restituito a livello stilistico da un’inquadratura dalle dimensioni costanti per tutta la durata della pellicola, fissa su un campo medio-lungo perpetuo che restituisce un senso di paralisi destabilizzante.
Vetri, riflessi e obiettivi
Relativamente alla cura formale ed estetica dell’inquadratura Vasyanovych pare un vero chirurgo. Una geometria rigidissima governa la messa in scena di Reflection. Un rigore che obbliga la macchina da presa all’immobilità o, al massimo, a seguire un’inflessibile e quasi doloroso schema quando alla stasi si sostituiscono articolati piani sequenza. La cinepresa non interpreta in alcun modo ciò che ha di fronte. Mostra senza intervenire. Impietosa. Gelida. Una scelta stilistica fin troppo smaccata che nuoce all’efficacia del racconto. La ricerca formale, infatti, così strabordante di simboli, rischia di sfociare in un compiacimento estetico che stride con gli orrori narrati. La stessa messa in scena della violenza, soprattutto nella prima parte del film, scade quasi in voyeurismo del dolore. La dilatazione temporale estrema non aiuta a rendere le immagini meno respingenti, seppur formalmente impeccabili. Come il gabbiano che si schianta con violenza sulla finestra di Serhiy ad un certo punto del film, così Reflection si schianta sull’obiettivo della macchina da presa in un urto forse troppo violento. Troppo gelido.
Reflection. Regia di Valentyn Vasyanovych. Con Roman Lutskyi, Stanislav Aseyev, Oleksandr Danyliuk, Vasiliy Kukharskiy, Nadiya Levchenko, Nika Myslytska, Andriy Rymaruk, Andrii Senchuk, Igor Shulha e Dmitriy Sova. Al cinema dal 18 febbraio, distribuito da Wanted Cinema.
3 stelle