Dalla Festa del Cinema di Roma la nostra recensione di Saltburn, scritto e diretto dal premio Oscar Emerald Fennell: Barry Keoghan è il protagonista di un film torbido e cupo sul prezzo dell’ossessione e dell’amore
Tre anni fa Emerald Fennell ha spiazzato un po’ tutti con il sorprendente revenge movie in chiave femminista Una donna promettente, aggiudicandosi persino un Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Da quella storia la regista e sceneggiatrice inglese ha deciso di proseguire con questo Saltburn, opera seconda presentata nella sezione Grand Public della diciottesima Festa del Cinema di Roma. La Fennell stavolta ci parla ancora di un’ossessione ma in chiave diversa rispetto al suo esordio, di un amore malato e sfrenato che sfocia in ambizione, grazie ad un mefistofelico Barry Keoghan qui al suo debutto come protagonista e ad un cast perfetto tra cui spiccano Rosamund Pike e Jacob Elordi.
Benvenuti a Saltburn
Lottando per trovare il suo posto all’Università di Oxford, lo studente Oliver Quick (Barry Keoghan) si ritrova nel mondo dell’affascinante e aristocratico Felix Catton (Jacob Elordi) che lo invita a Saltburn, l’eccentrica tenuta di famiglia, per un’estate indimenticabile. Qui farà la conoscenza della madre di Felix Elsbeth (Rosamund Pike), un’ex modella ora moglie devota di James (Richard E. Grant), della sorella Venetia (Alison Oliver) provocante e fuori dagli schemi e di Farleigh (Archie Madekwe).
Tra amore e orrore
Se è vero che gran parte della letteratura, e quindi delle storie e quindi degli immaginari, si basano sul conflitto eterno tra amore e orrore come affermava un certo Edgar Allan Poe, non potrebbe esserci una dicotomia migliore per descrivere la storia e l’immaginario in cui Saltburn si muove. Perché quella scritta e diretta da Emerald Fennell è una favola nera, nerissima sull’ossessione e il desiderio, e su come un amore malato possa trasformare tutto ciò a cui viene a contatto creando solo un deserto di orrore e morte attorno a sé. La parabola di Oliver è infatti quella più classica di chi non viene da un ambiente di potere e di privilegio, ma ha tutte le intenzioni di sovvertire il corso della propria sorte.
Qui però non siamo tanto dalle parti di un novello Iago o di un principe Andrej, bensì da quelle più prosaiche di un romanzo di formazione a tinte quasi orrorifiche. Saltburn gioca infatti sui riferimenti alla cultura pop, sul suo essere profondamente e orgogliosamente queer, sulla sua “sassiness” che qui si traduce in dialoghi fulminei e ficcanti, sulla rappresentazione colorita e colorata di un mondo che esiste solo al di là dei cancelli della sfarzosa tenuta che dà il titolo alla pellicola. Come aveva già fatto nel suo film d’esordio la cineasta inglese gioca anche qui col rimbalzo tra i generi, miscelando thriller, commedia nera, grottesco e una punta di commedia brillante.
Tante facce, pochi volti
In Saltburn tutti, in un modo o nell’altro, sono costretti a nascondersi dal dolore, dal fallimento e dalla verità. È un film di bugie questo, non solo quelle raccontate dai personaggi agli altri ma anche e soprattutto a sé stessi, poiché scelgono di vivere in un mondo in cui tutto deve sembrare (non essere) perfetto. C’è ovviamente un minimo intento satirico in tutto ciò, ma l’impressione di chi scrive è che il film sembri prendersi molto più sul serio di quanto appaia, specialmente nel terzo atto in cui quelle maschere e quelle facce così ben costruite saranno costrette a cadere, una per una.
Si arriva però quasi a pensare che la Fennell abbia voluto trattenersi dall’esacerbare troppo il colpo, non per una mancanza di cattiveria ma piuttosto perché priva di un’urgenza così forte, la stessa urgenza che invece aveva reso Una donna promettente così impattante e decisivo. È un po’ questo il problema principale di un film che comunque non si risparmia dal voler colpire duro e dal dimostrare una cattiveria e un cinismo nelle intenzioni piuttosto raro in quel di Hollywood ai giorni nostri. Che poi questa cattiveria e questo cinismo siano effettivamente così genuini, a noi non è dato saperlo, però rimangono una boccata d’aria fresca anche nella rappresentazione viscerale delle pulsioni erotiche di Ollie.
Un amore, un’amicizia
Nel suo racconto così felicemente menefreghista e sboccato Saltburn decostruisce il mito moderno del privilegio, rappresentandolo come un male oscuro da debellare una volta per tutta e chiedendosi il senso dell’esistenza di un certo tipo di costrutti sociali al giorno d’oggi. È un po’ un peccato invece che il film abbia qualche problema di pacing di troppo, dato che nella seconda metà del secondo atto tende a trascinarsi per poi bombardarci con un paio di finali e controfinali di troppo. Probabilmente asciugando e tagliando qualcosa in fase di montaggio la favola horror di Emerald Fennell sarebbe uscita fuori con maggiore potenza e incisività, mentre qui qualcosa lascia per strada.
Resta comunque un’opera sui generis che esplode letteralmente nell’ultimo long take sulle note di Murder on the dancefloor, spogliandosi letteralmente e metaforicamente di tutte le sovrastrutture fin lì createsi, delle bugie, delle liti di famiglia, del perbenismo tossico, delle manipolazioni. Resta solo un ragazzo vittorioso e vinto, che forse ha ottenuto ciò che voleva ma non ciò di cui aveva bisogno: un amico, un amore, qualcuno che lo facesse sentire speciale per ciò che sarebbe potuto essere.
TITOLO | Saltburn |
REGIA | Emerald Fennell |
ATTORI | Barry Keoghan, Jacob Elordi, Rosamund Pike, Richard E. Grant, Alison Oliver e Archie Madekwe |
USCITA | prossimamente |
DISTRIBUZIONE | Prime Video |
Tre stelle e mezza