Mario Martone dirige Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco al Teatro Argentina ne Il filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza, con l’adattamento di Ippolita di Majo
Reduce da una lunga tournée di successi in tutta Italia, ritorna a Roma, dopo il debutto al Teatro India nella passata Stagione, Il filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza nell’adattamento di Ippolita di Majo, per la regia di Mario Martone, dal 26 maggio al 5 giugno accenderà il palcoscenico del Teatro Argentina con la parola incendiaria di una delle voci più sorprendenti, e tra le meno conosciute, della letteratura del nostro Novecento.
Dopo aver messo in scena Ramondino, Ortese, Morante, ancora una volta Mario Martone attraverso il teatro ci porta alla scoperta di un’opera letteraria originariamente non pensata per il palco, come il mondo passionale e autentico di Goliarda Sapienza – scrittrice siciliana tanto ignorata in vita quanto celebrata oggi per il grande successo postumo de L’arte della gioia.
Donna fuori dagli schemi e dalle ideologie politiche del suo tempo, fu prima partigiana, poi femminista, sempre controcorrente e contro il conformismo che ha lottato con ogni mezzo, primo fra tutti la scrittura, fino al combattimento intimo contro la depressione. La sua storia e la sua raffinata intelligenza sono al centro di questo adattamento teatrale affidato al talento di Donatella Finocchiaro, nel ruolo della scrittrice, e di Roberto De Francesco, in quello del psicanalista, per ripercorre le pagine del suo romanzo autobiografico e scandaloso, uscito nel 1969 per Garzanti e recentemente ripubblicato da La nave di Teseo.
Con lucidità e dovizia di particolari lo spettacolo è una narrazione quasi in presa diretta del percorso psicanalitico vissuto dall’autrice dopo il periodo di depressione sfociato in un tentativo di suicidio. Seduta dopo seduta, Goliarda esplora la sua memoria, i ricordi, le sensazioni, le libere associazioni, mentre lo psicoanalista la guida, l’accompagna e riesce a condurre la scrittrice dalle tenebre nelle quali il ricovero in manicomio e i ripetuti elettroshock l’avevano sprofondata, alla luce della coscienza e al recupero della propria identità.
Parallelamente il palcoscenico è diviso in due parti, dove la zona dell’interiorità e quella dell’esteriorità coesistono sulla scena in uno sdoppiamento speculare della stessa stanza, a riproduzione del mondo intimo di Goliarda e dei desideri dei due protagonisti. Un dialogo terapeutico, dilatato nel tempo, che si tramuta in un corpo a corpo e in una riflessione acuta sulla condizione femminile. «Ne Il filo di mezzogiorno quasi tutto accade nel presente continuo del mondo interno di Goliarda, secondo un modo di raccontare e un uso della dimensione temporale che assomiglia a quello del cinema. Il luogo dell’azione è il tempo dell’analisi, un tempo fatto di mondo interno, di vivi e di morti, di fantasmi, di desideri, di emozioni segrete e alle volte indicibili – riflette Ippolita di Majo – È un luogo nel quale si rincorrono personaggi che appartengono a tempi storici diversi: c’è l’analista, ma c’è anche la madre Maria Giudice, il padre Peppino Sapienza, e poi la sorella Nica, il fratello Ivanoe, e ancora Enzo, e poi Citto e le amiche Titina, Haya, Marilù. Nel mondo dell’analisi, fatto di regressione, rievocazioni, proiezioni, transfert, i vivi e i morti stanno insieme. Sul piano della scrittura questo si traduce nella compresenza di diversi registri temporali: c’è il presente dell’analisi e quello della regressione, ma c’è anche il tempo del racconto dell’analisi al lettore, il presente della scrittura del romanzo. Nell’adattare il testo per la scena, ho immaginato che l’azione si potesse svolgere in due diverse zone del palcoscenico che sono anche due ‘zone’ del mondo interno di Goliarda. La zona 1 è uno spazio vuoto, buio, onirico, una zona appartata e solitaria, sprofondata nei meandri dell’inconscio. La zona 2 invece è il luogo della realtà, della relazione, è la sua casa, il luogo in cui i fantasmi prendono corpo, ma sono arginati dall’incontro con il dato reale, è il posto in cui ogni giorno viene a farle visita l’analista che l’ha presa in cura».
Mentre Mario Martone così commenta: «Lo studio del mio analista era un rettangolo pronunciato, per un anno l’ho guardato seduto su una poltrona, schiena al lato corto dove c’era la porta d’ingresso, l’analista seduto davanti a me. Guardavo la porta a destra sul lato lungo e pensavo che oltre quella porta ci fosse la stanza col lettino. Quando il mio analista mi disse che nella seduta successiva mi avrebbe voluto sul lettino gli chiesi “Dunque andremo in quell’altra stanza?” ma lui mi invitò a guardare alle sue spalle: “Il lettino è lì”. Non l’avevo mai visto. Forse da questo episodio è scaturita l’idea di sdoppiare la stanza di Goliarda, non lo so. So che ho amato il mio analista Andreas Giannakoulas e che alla sua memoria dedico oggi questo spettacolo».
Prodotto da una nutrita schiera di Stabili Nazionali – Teatro di Napoli, Teatro Stabile di Catania, Teatro Stabile di Torino e Teatro di Roma – lo spettacolo si avvale delle scene di Carmine Guarino, dei costumi firmati da Ortensia De Francesco, delle luci di Cesare Accetta; mentre le musiche del canto dei pescatori delle Isole Eolie sono di Mario Tronco.