Dalla Festa del Cinema di Roma la nostra recensione di The Dead don’t Hurt – I morti non soffrono, opera seconda di Viggo Mortensen qui anche protagonista: un western anticlimatico e rarefatto, dai tempi dilatati, che propone l’amore come unico antidoto ai soprusi
Se The Dead don’t Hurt – I morti non soffrono è un indizio di dove la visione registica di Viggo Mortensen stia andando, dopo l’esordio di Falling, lo si capisce sin da subito. Perché il western dell’attore e regista danese, dopo una partenza fulminante e violenta, si adagia su territori dilatati da slow burner, modella i propri personaggi attorno ad una struttura a strati e ad una narrazione non lineare e monta lentamente la tensione fino ad esplodere nel finale, parlando di come l’amore sia l’unica risposta possibile all’insensatezza della violenza. Bravissimi Vicky Krieps e Danny Huston, oltre allo stesso Morgensen.

Omnia vincit amor
Frontiera occidentale degli Stati Uniti, negli anni ‘60 dell’Ottocento. Vivienne Le Coudy (Vicky Krieps) è una donna molto indipendente, che stringe una relazione con l’immigrato danese Holger Olsen (Viggo Mortensen). Dopo aver incontrato Olsen a San Francisco, accetta di trasferirsi nella di lui casa, vicino alla tranquilla cittadina di Elk Flats, Nevada, per iniziare una vita insieme. Lo scoppio della Guerra Civile li separa, quando Olsen decide di combattere per l’Unione. Lascia così Vivienne a cavarsela da sola, in un luogo controllato dal corrotto sindaco Rudolph Schiller (Danny Huston) e dal suo spregiudicato socio in affari, il potente ranchero Alfred Jeffries (Garrett Dillahunt).
Il figlio violento e sbandato di Alfred, Weston (Solly McLeod), perseguita in modo aggressivo Vivienne, determinata a resistere alle sue indesiderate avances. Quando Olsen torna dalla guerra, lui e Vivienne sono costretti a fare i conti con la persona che ciascuno di loro è diventata.

L’importanza del punto di vista
Ha un qualcosa di nerboruto e di aggraziato nello stesso tempo quest’opera seconda di Viggo Mortensen. Comincia infatti come un film muscolare e implacabile, con un’esecuzione fuori da un saloon che pare presa da uno spaghetti western di Sergio Leone e poi cambia improvvisamente traccia, accoglie due narrazioni parallele e dilata il tempo diegetico per raccontare la storia d’amore tra Vivienne e Holger. Quella che però appare come una semplice e tradizionale storia d’amore consumata in un territorio ostile e violento, profondamente maschilista e reazionario, si appoggia ad un punto di vista piuttosto inusuale per il genere: quello femminile.
Perché in The Dead don’t Hurt lo sguardo che ci introduce agli eventi, di cui dobbiamo sopportare la violenza e i soprusi subiti è quello di Vivienne. Alle volte sognante (come nelle fantasie in cui viene soccorsa da un aitante cavaliere medievale), ma più spesso disilluso, amareggiato da un’infanzia segnata dal brutale omicidio del padre, forse incapace di ritrovare l’innocenza di un tempo. Mortensen la elegge a protagonista vera del film, a Beatrice di un Purgatorio che assomiglia più all’antisala di un Inferno piuttosto che di un Paradiso. Il rapporto che cresce tra lei e Holger ha quindi i contorni di un fiore delicato, la cui metafora viene cristallizzata proprio nell’enorme amore che Vivienne ha per i fiori.
Il momento forse più evidente e chiarificatore per la costruzione di questa relazione è proprio il ritorno di Holger dalla Guerra Civile per cui si era arruolato, quando Vivienne sta combattendo anch’essa una guerra interiore dopo che una violenza indicibile sembra averle strappato via la sicurezza negli altri (ma non in sé stessa). La reazione di Holger è tanto furiosa quanto posata allo stesso tempo, rispecchiando perfettamente sia l’anima contraddittoria del film che la dicotomia amore-violenza da cui è nutrito. Sembra quasi una pellicola di sogni infranti, o forse di illusioni infrante, The Dead don’t Hurt, soprattutto quando il sogno è di qualcun altro e noi dobbiamo sostenerlo anche a costo di scoprire che è solo un imbroglio.

Un western anticlimatico
Mortensen dipinge una vera e propria tela cinematografia impreziosita dalla fotografia di Marcel Zyskind, capace di bilanciare la luce del sole e l’ombra per definire la costante dicotomia interna, ma anche dal montaggio di Peder Pedersen, in costante equilibrio tra progressione narrativa e racconto ellittico. Se la prospettiva femminile è il tocco in più dell’opera seconda dell’attore danese-americano, la sua natura fortemente anticlimatica e dilatata nei tempi e negli spazi dell’azione lo rende tanto scostante quanto affascinante. Un oggetto amorfo nella costruzione e allo stesso tempo non troppo prevedibile nello sviluppo, in cui la natura meccanica dei dialoghi non pregiudica la verità di ciò vediamo.
The Dead don’t Hurt raccoglie a sé i vivi e i morti, la passione amorosa e il dolore, l’attesa e l’improvvisa esplosione del desiderio (seppur tossico) e della violenza. Se il villain di Solly McLeod è tanto brutale quanto ripugnante, un plauso particolare va a Danny Huston e al suo losco sceriffo, oltre che alla protagonista Vicky Krieps per la grande capacità di restare nei binari della sottrazione senza perdere né intensità e né intenzione. La seconda pellicola di Viggo Mortensen conferma il percorso artistico interessante e fuori dagli schemi della star, che non ha paura di mettere alla prova la sensibilità e la pazienza dello spettatore in una storia in cui la sofferenza è il prezzo da pagare per essere vivi. E forse anche per rimanerci.
TITOLO | The Dead don’t Hurt – I morti non soffrono |
REGIA | Viggo Mortensen |
ATTORI | Viggo Mortensen, Vicky Krieps, Solly McLeod, Garret Dillahunt, W. Earl Brown, Danny Huston, Colin Morgan, Ray McKinnon, Atlas Green |
USCITA | 24 ottobre 2024 |
DISTRIBUZIONE | Movies Inspired |
Tre stelle e mezza