Dalla Mostra del Cinema di Venezia 2022 ecco la conferenza stampa del film The Son con il regista Florian Zeller e i protagonisti Hugh Jackman, Laura Dern e Vanessa Kirby
È stato presentato questa mattina in conferenza stampa, The Son di Florian Zeller, in concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia. Presenti insieme al regista anche gli attori Hugh Jackman, Vanessa Kirby, Laura Dern e Zen McGrath.
Una domanda per Florian. Hai fatto una transizione così di successo dal teatro al cinema. Questo significa che rinuncerai al teatro per il cinema?
Florian Zeller: Provengo dal teatro e negli ultimi anni ne ho fatto molto, lo amo profondamente e quindi non lo abbandonerò mai però voglio esplorare il cinema.
Perché Hugh Jackman dopo aver visto l’opera a teatro, ha chiesto di ottenere il ruolo di Peter? Perché hai voluto così fortemente questo ruolo?
Hugh Jackman: È vero in parte. In realtà non ho visto l’opera a teatro, avevo letto la sceneggiatura e sono sempre stato un grande fan. Ho percepito che quella parte fosse giusta per me in quel momento della mia vita e che dovevo fare quel volo. Ovviamente mi ha fatto anche paura tutto ciò perché magari il regista non mi avrebbe dato il ruolo. Ecco, per questo gli ho scritto subito e gli ho detto: «se non sei già in contatto con qualcuno, a me piacerebbe tanto avere questo ruolo». Io ho rincorso questa parte.
Florian Zeller: Sono stato veramente molto sorpreso e toccato dall’umiltà di Hugh e dalla sua onestà, ho pensato che fosse qualcosa di veramente molto speciale. Ci siamo incontrati su zoom, due anni fa era l’unico modo per poterci parlare, ma io non volevo ancora prendere decisioni anche se dopo soli otto minuti gli ho offerto la parte perché ho avuto subito la sensazione che avesse un collegamento diretto con la storia. Avevo la sensazione che avesse le capacità di rispondere e di esplorare in modo molto onesto il ruolo che gli volevo offrire. È stata la decisione migliore che abbia mai preso e da quel momento in poi è stato un viaggio molto intenso.
Inizialmente la sceneggiatura era ambientata in Francia, quindi, come è stato trasporre il tutto a New York?
Florian Zeller: È vero che il film è l’adattamento di un pezzo teatrale che di fatto era ambientato in Francia ma quando ho pensato all’adattamento, in cui tutto inizia con un sogno, la prima immagine che mi è apparsa è stata New York perché ho pensato che fosse un crocevia dove si possono incontrare persone da qualsiasi luogo del mondo. È stato fondamentale, quindi, non raccontare una storia francese, americana o britannica ma una storia che potrebbe succedere a chiunque. Per me New York è stato un modo per raccontare quella storia. Il lavoro voleva essere più vicino alla realtà americana quando abbiamo lavorato sul lato più psicologico. Abbiamo quindi cercato di essere molto aderenti alla realtà americana ma doveva al contempo avere un risvolto anche universale.
Hugh, è stato bello vederti ballare in questo film. È una cosa che è uscita man mano oppure era già nella sceneggiatura? E quel ballo l’hai coreografato tu?
Florian Zeller: Il ballo in realtà era già presente nella sceneggiatura. Abbiamo scelto la canzone insieme a Vanessa con l’obiettivo di cercare qualcosa che rispecchiasse la verità. È stato un momento molto gioioso a metà di questo viaggio fatto insieme.
Hugh Jackman: Quando ho raccontato a casa la scena ho spiegato che avrei dovuto fare la parte di un papà che balla come fanno i papà. Mia figlia ha detto di non preoccuparmi perché bisogna essere un bravo ballerino per far finta di non esserlo. Florian mi ha chiamato e mi ha detto che Anthony Hopkins avrebbe avuto il ruolo di mio padre in una scena veramente molto bella e così importante all’interno del film. Ero emozionato per l’incontro, un po’ nervoso perché in realtà lui è un gigante, uno di quegli attori che ho sempre ammirato. Anthony è stato fonte di grande ispirazione perché ha l’etica del lavoro, la curiosità. Inviava costantemente e-mail a Florian, è una persona piena di vita, di gioia.
Una domanda per il signor Jackman e per la signora Kirby. In tutto il film come spettatori noi vediamo delle scene che sono fatte di sguardi, di primi piani. Vediamo gli attori che guardano direttamente nella cinepresa, mi ha ricordato lo sguardo di Kubrick. Quindi qual è stata l’idea?
Vanessa Kirby: La domanda riguarda l’interazione non verbale. Florian è un maestro nella comunicazione di ciò che non viene detto, dell’inconscio. Credo che la dinamica che è stata creata sia stata fantastica proprio per quello. Credo che ci siano molte esperienze interne al personaggio, nella sua psiche ed è difficile comunicarlo. Il film è così bello perché riesce a catturare ciò che viene represso, vedere Laura e Hugh recitare è stato fantastico, proprio perché c’era così tanto non detto, ed è molto raro vedere questo. Vedere appunto l’interpretazione dei pensieri e dei sentimenti e loro hanno fatto veramente un lavoro eccellente.
Florian Zeller: C’è un momento molto specifico nel film dove la famiglia si riunisce senza essere nella stessa stanza ma in cui il loro rapporto era determinato attraverso gli sguardi. Il figlio parla molto del divorzio, vuole dare la colpa a qualcuno. Questa non era la storia che volevo raccontare, non volevo trattare in modo specifico del divorzio, ma quando affrontiamo questioni di salute mentale si cerca sempre qualcuno a cui addossare la colpa. Le questioni di salute mentale sono molto difficili da spiegare. C’è una parte psicologica che non vediamo ma non volevo spiegare l’origine di tutto questo. Tutti noi conosciamo persone che hanno tutto quello che serve per essere felici ma devono affrontare un grandissimo dolore. È una cosa che non si può spiegare del tutto, rimane un mistero e ciò genera una frustrazione che deriva proprio dal non sapere esattamente da cosa questo si origini.
Laura Dern: Io vorrei solo aggiungere che mi sono sentita molto privilegiata nell’essere guidata da Florian e dalla sua saggezza. Questo d’amore della madre non è solamente l’amore nelle cellule, nel respiro è proprio una comprensione profonda del dolore, del trauma.
Il fatto che non ci sia una ragione tangibile per il dolore rende difficile catturare in qualche modo questo personaggio perché non c’è una causa-effetto. La cosa bella del film è che tratta di un malessere esistenziale che è una cosa molto profonda, difficile da identificare per un attore così giovane. Zen McGrath, come sei riuscito a trovare la capacità di tradurre tutto questo?
Zen McGrath: Sicuramente Florian mi ha aiutato moltissimo e quella confusione e quell’isolamento che il personaggio sente era sufficiente per riuscire ad incontrare, a trovare quel dolore.
Una domanda per Vanessa Kirby. Che cosa ti ha messo a tuo agio nell’interpretare questo ruolo?
Vanessa Kirby:Una domanda molto semplice. Io sono ispirata da quel cinema che ci chiede di porci delle domande e mi piacciono molto quelle domande che raramente trovano risposta. Ciascun personaggio ha quella lotta interna contro l’incapacità di esprimere le sensazioni. So che a Florian piace entrare in tutti quei meandri così difficili del nostro essere. Mi piacciono quindi i film che pongono questioni difficili perché sono io la prima a chiederle a me stessa e quando vedo che qualcun altro fa le stesse domande mi sento meno sola, mi sento parte della vita di tutti gli altri, accompagnata da altri esseri umani.
Una domanda per il signor Jackman. Vorrei chiederti come padre, come ti relazioni con l’idea che, a prescindere da quanto uno ci provi, non possiamo sempre proteggere e salvare le persone che noi amiamo.
Hugh Jackman: L’amore non è sempre sufficiente. Tutte le persone che fanno parte di questo film amano tantissimo ma si sentono incapaci in qualche modo. Tutti noi abbiamo bisogno di molto di più di una madre, di un padre. Abbiamo bisogno di un villaggio, degli amici, della comunità, degli insegnanti, di così tante persone che ci influenzano, che ci guidano. Il film evidenzia come noi siamo isolati e quanto possiamo esserlo soprattutto quando parliamo di malattie mentali. E il mio compito, come padre, come madre e come fratello, è quello di sistemare le cose e quindi renderci conto che siamo impotenti. Tutto questo porta alla vulnerabilità e alla conseguente possibilità di poter capire veramente le cose. Per molti anni come genitori abbiamo dovuto essere forti, indipendenti e non abbiamo voluto dare ulteriori pesi ai nostri figli. Io condivido le mie vulnerabilità con i miei ragazzi e spero che questo film porterà ad un dialogo e ad un dibattito. La questione della salute mentale è importante in tutto il mondo. Non dobbiamo affrontare le cose da soli, è una cosa di cui dobbiamo parlare e che dobbiamo capire.
C’è un momento molto specifico dove i genitori e il padre, in particolare, devono decidere davanti al figlio che dice di non voler essere abbandonato ancora una volta. Come avete preparato questa scena e avete mai avuto quelle sensazioni? Avete mai affrontato un dilemma di questo tipo nella vostra vita?
Florian Zeller: Credo che sia un dilemma che condividiamo tutti perché vogliamo tutti prendere la decisione giusta. Ed è così difficile, come genitore, sapere quale sia la decisione giusta ma va bene così, fa parte del viaggio genitoriale non sapere più che cosa fare in alcune situazioni. In questa situazione loro prendono una decisione sbagliata pensando di riuscire a sistemare le cose da soli. C’è un momento in cui è importante accettare la propria impotenza.
Hugh Jackman: Tutti i genitori capiscono la sensazione di essere terrorizzato da quello che si deve fare per i propri figli. Io avrei voluto che, a suo tempo, qualcuno mi avesse detto: «non prenderai sempre la decisione giusta, non fai sempre le cose giuste e va bene così». Il genitore è quel ruolo che in qualche modo ci fa accettare la nostra vulnerabilità. Ecco, non ho un collegamento diretto con la storia, ma credo che queste siano decisioni che tutti noi genitori dobbiamo prendere.
Laura Dern: Vorrei solo aggiungere che sono molto grata per il modo in cui questa storia è stata realizzata. Siamo usciti dalla pandemia, tutti sappiamo che questa crisi ha portato ad una crisi della salute mentale che colpisce bambini e adulti in tutto il mondo. I numeri sono veramente scioccanti. Per quanto mi riguarda credo che una delle parti più dolorose del viaggio riguardi la scoperta che anche quando ci sentiamo impotenti, quando ci sentiamo soli e proviamo vergogna, possiamo rivolgerci a così tante persone che hanno già affrontato queste cose e che forse ci possono dare delle delle idee perché si basano su quello che loro hanno passato. E quindi in qualche modo vogliamo sentire la comunità. La decisione presa può essere devastante e quindi tutti noi vorremmo sentire di far parte di una comunità.
Zen McGrath: La scena in cui dico di non abbandonarmi mi riporta un po’ alla mia infanzia. Lui ha un’idea di quello che vorrebbe dalla sua famiglia e ha tutto a che vedere con l’istinto di voler stare con i propri genitori per il senso di sicurezza che ci danno.
The Father aveva delle note autobiografiche. Perché ha voluto concentrarsi sulla salute mentale e in particolare sui giovani in questa opera?
Florian Zeller: Io ho scritto questa quest’opera diversi anni fa, credo sia la storia più importante che abbia mai raccontato, probabilmente perché in qualche modo è molto personale, non per quanto riguarda i personaggi o le situazioni ma per quanto riguarda le emozioni che sono presenti nelle famiglie. Non volevo però fare un film per poter condividere le mie emozioni, perché non è sufficiente parlare di noi stessi. In teatro ho visto una risposta molto positiva da parte degli spettatori e dopo gli spettacoli molto spesso le persone si avvicinano a noi per raccontare la propria storia. Mi sono reso conto che c’erano così tante persone che affrontano questo tipo di problema. Ecco che è diventata una questione più urgente e necessaria fare questo film. Ho voluto aprire il dibattito perché è importante sentirsi a proprio agio.
In The Father l’appartamento ricopriva un ruolo fondamentale e durante la visione di The Son ho avuto come la sensazione che gli appartamenti fossero come filtrati dalla visione di Nicholas. E quindi mi chiedevo, provenendo da una pièce teatrale, come si gestisse la scenografia, poi riportandola all’interno della pellicola.
Florian Zeller: In The Father utilizzo la scena per raccontare la storia, era un modo per portare lo spettatore in una posizione specifica, per poter capire che cosa significasse perdere il punto di riferimento e quindi entrare nel cervello del personaggio indossando. In The Son, il mio desiderio era quello di raccontare una storia in modo molto diverso, ecco perché è molto più lineare e diretto. È un modo per riflettere quello che volevo ottenere, cioè andare dritti sull’argomento, affrontarlo e raccontare la storia da fuori dal punto di vista del padre e della madre. Dal punto di vista delle persone che circondano questo giovane adolescente. Cercare di entrare nel suo cervello senza riuscire a farlo. E quindi non è solamente una questione di scenografia. In The Father era un’esperienza molto soggettiva. Qui invece volevo che ci fosse più obiettività, che fosse una storia più lineare e quindi la scenografia riflette tutto questo ed è più realistica.