Da Venezia la nostra recensione di Adagio, il nuovo thriller metropolitano di Stefano Sollima con Favino, Mastandrea e Servillo: si respirano di nuovo le atmosfere di Suburra, ma stavolta il colpo in faccia è meno forte. In concorso
A otto anni da Suburra Stefano Sollima chiude la sua trilogia concettuale sul sottobosco criminale di Roma con Adagio, il suo nuovo film presentato in concorso a Venezia 80 con Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea e Toni Servillo. Lo fa con un lavoro che rimanda costantemente al suo passato cinematografico e che richiama alla mente il cinema di Michael Mann o David Fincher, ma questa volta il meccanismo narrativo sembra non essere più così ben oliato come prima.
Un ragazzo in fuga
Manuel (Gianmarco Franchini) ha sedici anni e cerca di godersi la vita come può, mentre si prende cura dell’anziano padre che si fa chiamare Daytona (Toni Servillo) . Vittima di un ricatto, va a una festa per scattare alcune foto compromettenti ad un importante politico ma, sentendosi raggirato, decide di scappare ritrovandosi invischiato in questioni ben oltre la sua portata. Infatti i ricattatori che lo inseguono si rivelano essere estremamente pericolosi e determinati a eliminare quello che ritengono uno scomodo testimone, e il ragazzo dovrà chiedere protezione a due ex-criminali, Pol Niùman (Valerio Mastandrea) e il Cammello (Pierfrancesco Favino), vecchie conoscenze del padre.
Roma brucia
Comincia con un lungo aerial shot Adagio, in cui la macchina da presa svela lentamente la skyline notturna di una Roma che sta letteralmente prendendo fuoco. Brucia la città eterna, ma a nessuno sembra importare più di tanto come avveniva in Suburra, solo che lì c’era l’acqua. E in questa Roma infernale si muovono come marionette tutti i personaggi di questa storia, sorretti da fili invisibili che li imprigionano in una vita di violenza, ricatto, vendetta e morte, una vita da cui appunto non possono scappare. Sollima continua così a raccontarci quel sottobosco criminale che abita la capitale d’Italia, ma sempre dal punto di vista di chi si ritrova a venirne risucchiato per una scelta sbagliata.
L’arco narrativo di Manuel diventa perciò una continua fuga per la propria vita mentre si fa largo attraverso gli ultimi anni dell’adolescenza, venendo perciò costretto a dover in qualche modo crescere in fretta, a pesare le sue prossime scelte, a valutare con cura le proprie decisioni, a scegliere. Ad aiutarlo in questa Odissea nera troverà tre uomini che invece non hanno potuto (o forse voluto) scegliere quando è arrivato il loro momento, e che ora aspettano la morte mentre ognuno di loro è menomato da un difetto, da un’imperfezione: uno è cieco, uno ha il cancro, uno un principio di demenza. Adagio quindi sembra voler raccontarci una storia di redenzione, in cui la redenzione non è davvero possibile.
Le colpe dei padri
Quella diretta e scritta da Sollima è però anche una pellicola (alla cui sceneggiatura figura anche Stefano Bises) che riflette sulla paternità, sul suo senso rispetto alla nostra contemporaneità e sugli effetti del suo fallimento. Il rapporto tra Daytona e Manuel non è subito centrale nella vicenda ma lo diventa, portandosi dietro un carico tossico di rifiuto, di abbandono e di un amore che non è mai stato tale da parte di un uomo che ha preferito vedere suo figlio crescere senza provare a conoscerlo. Al contrario il rapporto tra il principale antagonista di Manuel, il poliziotto che gli dà la caccia, e i figli di quest’ultimo è un rapporto amorevole, interessato e almeno all’apparenza sano.
Questa dicotomia è destinata a convergere prima o poi in uno scontro a distanza tra due modi di intendere e di vivere la paternità, con il risultato però di un fallimento comune e inevitabile. In Adagio si muovono perciò personaggi soli, figli o padri che siano, e che hanno fatto della propria solitudine una forza per combattere il mondo esterno ma anche una debolezza che rischia di corroderli dall’interno, rendendoli più esposti, più vulnerabili. Quella del regista romano è una battuta di caccia, la città stessa diventa zona di caccia tutta senza più green zone ed è quindi indispensabili avere un alleato, qualcuno che stia dalla tua parte per aiutarti, per salvarti.
Un meccanismo che mostra la corda
Ciò che tuttavia traspare maggiormente alla fine della visione è come Stefano Sollima sia ancora rimasto con la mente a quel Suburra che lo aveva lanciato nel panorama italiano e non solo, aprendogli le porte di Hollywood. Adagio sembra una sorta di suo sequel spirituale e non solo perché, stilisticamente, il film mantiene la macchina a spalla onnipresente, la fotografia satura e digitale che ricorda quella di Michael Mann, la cinepresa costantemente attaccata ai volti e ai corpi ma anche perché il tema della possibilità di redenzione attraverso le proprie scelte viene esplicitato quasi allo stesso modo, con gli stessi turning point, ma cambiando il climax rovesciandolo.
Perché qui, a differenza di Suburra, il protagonista non va sporcato e il duello finale in metropolitana per forza di cose non può avere il sapore della resa dei conti di quel film lì. Ed ecco che Adagio diventa improvvisamente poetico e quasi aulico, senza però colpire duro come avrebbe potuto e dovuto; è un cane che si mangia la coda, un meccanismo che non è più oliato come una volta e che mostra ad un certo punto la corda, pur comunque regalando più di un momento di cinema con la C maiuscola. Perché SOllima a girare è capacissimo, sa come usare gli spazi, la luce e gli attori per generare tensione e aspettativa ma a questo giro manca qualcosa a quest’incendio. Roma brucia, Adagio non così tanto, però gli attori sono straordinari.
Adagio. Regia di Stefano Sollima con Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Gianmarco Franchini e Adriano Giannini, in uscita nelle sale il 14 dicembre distribuito da Vision Distribution.
Tre stelle