The Book of Vision è un film carico di misticismo, che mostra il profondo legame tra passato, presente e futuro: la recensione del film che apre la 35ª edizione della Settimana Internazionale della Critica a Venezia 77, diretto da Carlo S. Hintermann, con Terrence Malick come produttore esecutivo
Il Libro delle Visioni del dottor Anmuth
Eva (Lotte Verbeek) è una dottoressa di successo che abbandona una carriera in ascesa per dedicarsi allo studio della storia della professione medica. A colpirla è soprattutto la scoperta di un trattato redatto nel XVIII secolo dal medico prussiano Johan Anmuth (Charles Dance), un medico nella Prussia del ‘700 in bilico tra nuove spinte razionaliste e antiche forme di animismo. Il Libro delle Visioni è il manoscritto capace di intrecciare le loro esistenze in un vortice ininterrotto. Il libro non è un testo meramente scientifico. Piuttosto, contiene le speranze, le paure e i sogni di più di 1800 pazienti.
Niente si esaurisce del tutto
Il dottor Anmuth sapeva come ascoltare i suoi pazienti e il loro spirito vaga ancora tra le pagine di quel testo stupefacente (conservato gelosamente in biblioteca), dove vita e morte fanno entrambe parte di un unico flusso. La storia di Anmuth e dei suoi pazienti porterà Eva a mettere in discussione tutta la sua vita, comprendendo che niente si esaurisce nel proprio tempo. Forse in un corpo convivono più anime? Ad accompagnarla una difficile decisione da prendere: salvaguardare la propria salute oppure quella del bambino che porta in grembo. Questa la sinossi di The Book of Vision, un film che possiede l’ambizione di dire la propria su concetti impegnativi quali passato, presente, vita, morte e destino.
Approccio irrazionale
Carlo S. Hintermann si siede dietro alla macchina da presa e riesce a girare un film che analizza vita e scienza intrecciando due epoche molto distanti l’una dall’altra. Il suo operato è pulito e preciso, volto a ben rappresentare la tensione emotiva di molte scene. La comprensione delle ideologie che si nascondono dentro al film risulta inizialmente complessa – emergono più domande che risposte – ma piano piano vengono sciolti molti nodi (non tutti). Il montaggio è particolare, caratterizzato da continui passaggi che vanno dal ‘700 ad oggi e viceversa. Si cerca di mantenere alta la tensione, riuscendoci, ma al tempo stesso si pecca di troppi tagli. Il difetto più grande, tuttavia, è forse da ricercare nella sceneggiatura di The Book of Vision, che non sempre risulta essere all’altezza della bellezza delle sue scene. Inutile tentare un approccio razionale: la visione del film risulterebbe totalmente fallimentare.
L’albero magico delle anime
Molto suggestivo l’albero abitato dalle ombre dei morti, brulicante di presenze nascoste pronte a palesarsi solo a determinate condizioni. È anche attraverso questo elemento che si riesce ad assottigliare la linea di confine che esiste tra la vita e la morte. Nulla da dire, infine sulla “forma”: in alcune scene i movimenti inizialmente impercettibili diventano poi evidenti, lasciando a bocca aperta (merito forse della presenza del visionario Terrence Malick come produttore esecutivo). Altre scene appaiono addirittura “disturbanti”, ma proprio per questo risultano estremamente efficaci nel mostrare la parte extra-terrena e extra-corporale della storia. “Quando i medici hanno smesso di ascoltare i pazienti?”. “I progressi fatti dalla medicina dell’Ottocento hanno fatto percepire il corpo umano come un mero involucro?”. “Occorre studiare il passato per capire il futuro e come siamo arrivati al presente”. Questi ed altri gli spunti forniti da un film che va metabolizzato, non perfetto ma sicuramente da apprezzare per il coraggio e per l’estetica sopraffina.
The Book of Vision apre la 35ª edizione della Settimana Internazionale della Critica, sezione autonoma e parallela organizzata dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) nell’ambito della 77ª Mostra del Cinema di Venezia. Nel cast anche Sverrir Gudnason, Isolda Dychauk, Filippo Nigro e Giselda Volodi.